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A esser ragazzi, anche se si viene da Paesi differenti, ci si capisce

Uno scambio di idee con tre ragazz* coinvolt* in una sperimentazione di accoglienza precoce di alunni NAI, in modalità di peer education, nell’ambito di un progetto FAMI.

28/01/2025
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Come abbiamo già riferito sono in corso gli eventi pubblici di presentazione dei progetti che hanno avuti i finanziamenti. Finanziamenti piuttosto cospicui, peraltro e poiché si è determinato un residuo, è imminente la pubblicazione di un ulteriore avviso destinato alle Regioni che finora non hanno partecipato al Bando perché propongano ora propri progetti.

A margine della presentazione pubblica del Progetto umbro, abbiamo incontrato tre giovani che sono stati coinvolti nell’attività di accoglienza dei NAI, in modalità di peer education, presso l’Istituto Tecnico Tecnologico “Allievi Sangallo” di Terni. Esperienza successivamente formalizzata e presente ora all’interno del Progetto FAMI: ragazzi e ragazze con background migratorio sono diventati in prima persona mediatori e facilitatori dell’inserimento e dell’inclusione scolastica di altri ragazzi, neo arrivati in Italia.

Chiediamo come sono arrivati a questa esperienza. Nonostante siano solo tre, emerge subito la varietà dei percorsi biografici; quella pluralità che si perde nelle rilevazioni che utilizzano categorie come “studenti stranieri” o di “cittadinanza non italiana”, senza badare al fatto che più del 60% di loro sono nati e vissuti in Italia e che, tra i rimanenti ci sono i NAI, i nuovi arrivati, i minori non accompagnati (MSNA), che dietro a ogni ricongiungimento c’è una vicenda diversa, che le singole provenienze contano e determinano esperienze e vissuti diversi, che ogni storia è diversa e difficilmente categorizzabile. Ma tant’è.

“Io conosco bene la lingua spagnola - dice T.  Mia madre viene dalla Repubblica Dominicana, quindi parla bene lo spagnolo. Ho accettato di fare questo lavoro perché mi andava di aiutare qualcuno. Non è mai facile per chi arriva. Noi andiamo a vedere solo il lato linguistico, ma non è mai solo il lato linguistico. Non è solo da quel lato che diamo una mano come mediatori”.

“Ho cominciato un po’ per scherzo, un po’ per gioco. Un giorno ho accompagnato lei (si rivolge ad A, la terza ragazza) ad una riunione e mi è stato chiesto di vedere un ragazzo proveniente dalla Nigeria che parlava la sua lingua ma anche l’inglese. Siccome me la cavo con l’inglese, mi sono ritrovato a fare il mediatore culturale. Abbiamo lavorato sulla comparazione tra le due lingue, anche usando materiali forniti dall’insegnante. L’importante è parlare”

“Mia madre è venuta qui dalla Romania quando era molto giovane, mio padre è italiano. Non mi è mai stato insegnato il rumeno”.

E quindi in che modo specifico puoi essere stato efficace in questo lavoro? Chiediamo ad A.  

“L’approccio è completamente diverso. Col professore c’è il distacco dell’età, c’è sempre il muro, secondo me, la soggezione. Con l’insegnante non ti puoi porre come ti poni con un coetaneo, con un amico.

“Mi chiamo A, con due “i” (lo dice più volte che il suo nome si scrive con due “i”. Si vede che ci tiene proprio e viene in mente quel che dice E. Hazkuzwimana nel capitolo dedicato ai nomi dei ragazzi e delle ragazze con back ground migratorio e a come vengono spesso storpiati, nel suo “I bianchi di scuola”.

Io sono ucraina. Sono venuta qui quando avevo dieci anni. Quando è scoppiata la guerra, a causa dell’invasione della Russia, tanti ragazzi ucraini sono venuti qui. Con la professoressa abbiamo deciso di fare un corso di italiano ai primi arrivati. Da lì è partito tutto, poi si sono aggiunti altri ragazzi, di altre nazionalità e abbiamo iniziato a lavorare così. Due volte la settimana, il pomeriggio ci vedevamo. Abbiamo cominciato dalle basi, dalla grammatica, ma poi siamo passati alla conversazione e alla comprensione del testo. Via via ci siamo preparati meglio”.

A. Parla fluentemente l’italiano, la sua lingua madre è l’ucraino, conosce il russo e sicuramente avrà studiato almeno un’altra lingua nel suo percorso di studi. Alla domanda “Ma tu in che lingua sogni?” Risponde: “Sogno in tutte le lingue che so”.

Chiediamo: E che avete imparato facendo questo lavoro? “Bè, è una cosa fondamentale cercare di aiutare una persona, cercare di mettersi nei suoi panni, capire le sue difficoltà e cercare di sorpassarle, ecco”.

Reinterviene T. “Il compito del mediatore è proprio quello di far sentire sullo stesso piano il ragazzo che tu vai ad aiutare. Per questo siamo una figura diversa dal professore: non c’è differenza, siamo sullo stesso piano”.

“A esser ragazzi, anche se si viene da Paesi differenti, ci si capisce”.

Torna l’appuntamento in cui le lavoratrici
e i lavoratori di scuola, università, ricerca
e AFAM possono far sentire la loro voce.

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