
Le Nuove Indicazioni nazionali. Prime riflessioni critiche
Intervento del presidente Massimo Baldacci sulle Nuove Indicazioni nazionali, pronunciato al seminario di FLC CGIL e Proteo Fare Sapere a Didacta (Firenze, 14 marzo 2025)


Il documento delle Nuove Indicazioni relativo alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo di istruzione ha visto la luce in una versione che reca come sottotitolo Materiali per il dibattito pubblico, e che si presuppone quindi ancora provvisoria. Vedremo quanto la commissione terrà conto delle prossime audizioni, per altro convocate a strettissimo giro, senza concedere un tempo adeguato d’analisi.
Nel frattempo, iniziamo a esprimere alcune prime riflessioni critiche, limitate per lo più alla “Premessa culturale generale”. Una valutazione organica e circostanziata dell’intero documento richiederà un tempo più disteso (dai tempi di convocazione delle audizioni, sembrerebbe che la Commissione non l’abbia considerato).
In queste prime riflessioni, mi limiterò a evidenziare due aspetti di fondo, che mi sembrano caratterizzare l’orientamento culturale del documento offerto al dibattito pubblico. Ovviamente, si potrebbero fare molte altre osservazioni, ma qui mi concentro su queste due: l’ispirazione culturale etnocentrica, e precisamente occidentocentrica; l’ispirazione pedagogica antiegualitaria e determinista.
L’ispirazione culturale occidentocentrica. Iniziamo con l’osservare che, a differenza degli ultimi testi curricolari, non si cita mai il carattere multiculturale che la nostra società sta sempre più assumendo, particolarmente nelle aree metropolitane. Troviamo, invece, una serie di affermazioni circa la superiorità dell’Occidente sulle altre culture, che vengono così implicitamente inferiorizzate. Nel paragrafo su Scuola e nuovo umanesimo si legge che “La libertà è il valore caratteristico più importante dell’Occidente e della sua civiltà sin dalla sua nascita, avvenuta fra Atene, Roma e Gerusalemme”. Detta in questi termini, si tratta di un’affermazione di sapore ideologico. Certamente, la libertà è un valore importante nella modernità dell’Occidente, ma che sia tale fin dalle sue origini è quanto meno discutibile. Evidentemente, si dimentica che Atene e Roma furono società schiavistiche. L’eleutheria, la libertà dei cittadini ateniesi di partecipare alla vita pubblica riguardava una minoranza di individui adulti di sesso maschile, ne restavano escluse le donne, gli schiavi e gli stranieri residenti in città (i meteci). Inoltre, si trascurano i rapporti di servitù che caratterizzarono il Medioevo. Solo con la modernità, con l’illuminismo e il liberalismo, l’Occidente ha iniziato veramente a mettere a fuoco il valore della libertà. E non senza gravi contraddizioni (Losurdo, 2005). Basta ricordare la tratta degli schiavi neri dall’Africa verso le colonie americane dell’Inghilterra; il massiccio impiego di tali schiavi nelle piantagioni americane; l’assoggettamento coloniale di vaste aree del mondo da parte dell’Occidente; il razzismo biologico e culturale praticato verso le popolazioni di tali colonie, e perdurato anche in epoca post-coloniale. La vicenda dell’affermazione della libertà come valore universale ha un carattere complesso, tortuoso e conflittuale, che ha visto avanzamenti e ripiegamenti, e che è tutt’ora in corso. E in questa vicenda l’Occidente ha sia meriti che colpe. Rimuovere quest’ultime per proclamare la superiorità culturale ed etico-politica dell’Occidente è un’operazione meramente ideologica. Qual è il suo senso? Cercheremo di rispondere più avanti. In ogni caso, sarebbe piuttosto preferibile affermare qualcosa del tipo che la libertà è una aspirazione di tutti gli esseri umani, un valore la cui realizzazione richiede l’impegno costante di tutti. Lo stesso si può dire per l’asserzione che segue poco dopo: “Capire che cosa è la libertà […] agevola la comprensione di cosa sia una democrazia occidentale” (c.vo mio), dove non si comprende la necessità e il senso di quella specificazione. Non bastava semplicemente “comprensione di cosa sia la democrazia”? O, meglio ancora, “cosa sia una democrazia costituzionale”? (Ferrajoli, 2016).
La questione trova un prolungamento significativo nel capitolo riguardante la Storia. Tale capitolo si apre con un’asserzione icastica: “Solo l’Occidente conosce la storia” (c.vo mio), per poi precisare che “Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia […] Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su se stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo”. Anche queste sono affermazioni quanto meno problematiche e difficilmente giustificabili. Gli studi postcoloniali hanno criticato posizioni simili, argomentando che sono state usate per svalutare altre civiltà e legittimare così il dominio coloniale, definendo le altre culture come arretrate (Hall, 2006). Siamo perciò in presenza di idee eurocentriche, che fanno parte della narrazione sulla superiorità culturale dell’Occidente (Said, 2003). Tale posizione prepara la limitazione della storia da trattare all’ambito occidentale: alla storia dell’Europa e degli Stati Uniti, e al particolare riguardo per la vicenda nazionale italiana, “al fine di far maturare nell’alunno la consapevolezza della propria identità di persona e di cittadino”. Questa preoccupazione per la formazione all’identità nazionale italiana era già stata esplicitamente dichiarata da Galli della Loggia, coordinatore per la storia, nel volume Insegnare l’Italia (2023), scritto insieme al Presidente della Commissione Loredana Perla (ne ho già parlato in un precedente intervento). Rimane, pertanto, esclusa la trattazione della storia di aree extra-occidentali. Si tratta, però, spesso delle aree di origine delle famiglie di scolari con retroterra migratorio. Ma per tali scolari si hanno le idee chiare: data la loro presenza, l’insegnamento della storia nazionale italiana ha anche il fine di “favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere”. In altre parole, questi scolari – appartenendo a culture che non conoscono cos’è la storia – non hanno bisogno di capire il quadro storico in cui si è collocata la loro vicenda. Basta che studino la storia italiana ed europea per potersi integrare nella nostra società. Qual è il senso di questa ripetuta affermazione della superiorità culturale dell’Occidente? Perché definire implicitamente come inferiori le altre culture e civiltà? Sarebbe questo il “nuovo umanesimo”? La risposta va probabilmente vista nel quadro di integrazione che tende ad emergere, che pare concepito in senso meramente assimilazionista. Infatti, gli assunti sono che noi sappiamo cosa sono la storia, la libertà, la democrazia; loro no. Ossia, noi non abbiamo nulla da imparare; loro hanno tutto da imparare da noi. A partire da questi assunti, l’integrazione degli scolari con retroterra migratorio può essere solo di tipo assimilazionista. Tale integrazione consisterà, cioè, nell’assimilare la nostra cultura e nell’assimilarsi ad essa. Una prospettiva che si è già mostrata fallimentare nell’esperienza delle società multiculturali. Se l’aspetto cardinale dell’intercultura è rappresentato dal riconoscimento dell’altro (Taylor, 2002), la tendenza che emerge rischia di cadere in un suo disconoscimento. E questo potrebbe essere un serio problema per la futura coesistenza multiculturale. Eppure, nel paragrafo su Scuola e nuovo umanesimo, a un certo punto si scrive che “il senso del limite aiuta a evitare la deriva della hybris, della tracotanza”. Questa indicazione dovrebbe essere applicata ai passaggi testuali che abbiamo citato. Speriamo che la tracotanza etnocentrica di cui grondano possa essere emendata.
L’ispirazione pedagogica antiegualitaria e determinista. Nelle righe di apertura del paragrafo su Scuola e nuovo umanesimo si scrive che “Finalità principale della scuola è l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità fondamentali per sviluppare le competenze culturali di base nella prospettiva dello sviluppo integrale della persona e dei suoi talenti” (c.vo mio). E si continua precisando che “Il concetto di talento è intrinsecamente legato al potenziale cognitivo di ogni alunno che, se stimolato da un ambiente in grado di valorizzarne le potenzialità, può conseguire esiti positivi anche nelle situazioni di maggiore fragilità” (c.vi miei). Connettere la finalità principale della scuola a un concetto equivoco come quello di talento sembra, nuovamente, almeno discutibile. Ma la Commissione sembra avere le idee chiare circa il concetto di talento: “è legato al potenziale cognitivo di ogni alunno”. Detto così, senza ulteriori precisazioni, il “potenziale cognitivo” (le capacità cognitive presenti in potenza nell’alunno) tende facilmente ad essere inteso come innato. Tale potenziale (e il talento che ne deriva) sembra, cioè, una sorta dono naturale, diverso da alunno ad alunno. Ovviamente, questo potenziale naturale esercita un vincolo sul tipo di sviluppo possibile per ciascun scolaro, predeterminandone le soglie in modo differenziale nei diversi ambiti. Infatti, il talento indica una capacità specifica per dominio cognitivo. Pertanto, chi è dotato di talento linguistico tenderà a svilupparsi in modo maggiore in questo campo, meno in quello motorio (per esempio); e viceversa. Ciò che la scuola può fare è valorizzare queste potenzialità, così da permettere a ognuno di realizzare il proprio talento potenziale. Tutto questo implica che laddove queste potenzialità siano scarse (un basso potenziale linguistico, per esempio), la scuola può fare poco. E quindi, all’interno di ogni ambito, è giocoforza arrendersi a una diseguaglianza degli esiti. Per allontanare queste implicazioni, la commissione avrebbe dovuto criticare contestualmente una concezione innatista del potenziale cognitivo (Lewontin, 1993), ascrivendolo piuttosto a complesse interazioni (non ancora chiarite allo stato attuale delle conoscenze scientifiche), operanti fin dall’età più precoce (Karmiloff-Smith, 1996), tra corredi genetici e ambienti sociali di sviluppo (Lewontin, 1998; Hawkins, 1982). Tacere su questo significa lasciar intendere la validità della concezione di senso comune del talento, quella innatista-naturalista. Inoltre, vi è la questione del nesso col secondo comma dell’art.3 della Costituzione, richiamato (in modo incompleto) dal testo, che impegna la Repubblica “a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Per rendere pienamente autentico tale nesso, il testo avrebbe dovuto precisare che la scuola è impegnata a far raggiungere a tutti gli scolari – indipendentemente dalle loro differenze sociali e culturali – le conoscenze e le competenze fondamentali per la loro piena partecipazione come cittadini e come lavoratori alla vita sociale, politica ed economica del Paese. Si usa invece una espressione generale come lo “sviluppo integrale della persona”. In un testo curricolare, questa espressione (valida in sede di pedagogia generale) si presta ad essere intesa come valevole in linea generale, ossia per lo più. Sarebbe stato quanto meno opportuno completarla, precisando “ovvero, di tutti gli scolari” o altro analogo. La formulazione attuale, centrata sullo “sviluppo integrale della persona e dei suoi talenti” può invece costituire una premessa per rendere accettabile una diseguaglianza degli esiti reali dell’istruzione, mascherandola come imputabile a differenze dei potenziali cognitivi innati.
Il cerchio viene chiuso dal concetto di personalizzazione, che fa il suo ingresso nel paragrafo finale della Premessa, intitolato Scuola che sa essere inclusiva. Si dice che la personalizzazione è una “strategia che governa le scelte educative e didattiche” e che in base ad essa si “interpreta l’agire scolastico nei termini di un accompagnamento intenzionale dell’allievo a riconor-si capace, al di là delle difficoltà di sviluppare i suoi talenti”. In altre parole, sembra trattarsi di una diversificazione degli obiettivi d’apprendimento, e dei relativi percorsi didattici, in modo coerente con l’ipotetico potenziale di ogni scolaro, in modo da realizzare lo specifico talento di ognuno. Nelle Indicazioni dell’epoca Moratti, la personalizzazione era posta come principio pedagogico generale della formazione scolastica, adesso la sua area di pertinenza sembrerebbe relativa alle strategie di inclusione scolastica. Ma la differenza è più apparente che reale. Infatti, se si pone che la finalità generale della scuola consiste nello sviluppo dei talenti personali, e che la strategia per sviluppare il talento consiste nella personalizzazione, ne deriva che quest’ultima è la strategia che permette di perseguire la finalità generale della scuola, e dunque rappresenta il suo principio pedagogico fondamentale. Il punto debole di questa posizione è quello di dare per solidi e acclarati concetti equivoci e problematici come quelli di potenziale cognitivo innato e talento personale. Contrariamente a quello che sembra credere la Commissione, le inclinazioni mostrate a scuola potrebbero essere il frutto dei condizionamenti degli ambienti sociali di sviluppo. Quindi, intervenendo a rafforzare queste inclinazioni si corre il rischio di consolidare le diseguaglianze prodotte da tali ambienti (che fanno sì che un bambino appaia più versato nel campo linguistico e un altro nel campo motorio, per esempio), invece di limitarne l’influenza sul percorso scolastico. Questo non implica in alcun modo che tali eventuali inclinazioni vadano ostacolate, bensì che la scuola d’infanzia e del primo ciclo di istruzione debba porsi prioritariamente un problema diverso, che richiede una strategia di altra natura. Come si è visto, questo problema è quello di garantire a tutti gli scolari il raggiungimento delle conoscenze e delle competenze fondamentali per poter diventare a pieno titolo cittadini della Repubblica. E la realizzazione di questo esito richiede una diversa strategia, quella della individualizzazione. L’individualizzazione consiste nella flessibilità dei percorsi didattici in vista del raggiungimento di obiettivi comuni per tutti gli alunni, concernenti le conoscenze e le competenze fondamentali di cui si diceva sopra. Lo spazio della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione dovrebbe eleggere come principio prioritario quello della individualizzazione, non quello della personalizzazione. Ciò, beninteso, non impedisce che quest’ultima possa avere un ruolo accessorio. Una pedagogia critica e antidogmatica non si adagia su soluzioni unilaterali, ma inclina verso possibili integrazioni e dominanze (Baldacci, 2005). Nel segmento scolastico in questioni dovrebbe predominare l’individualizzazione, lasciando uno spazio secondario alla personalizzazione intesa per lo più nei termini di alcuni spazi di attività elettive.
I due punti critici che abbiamo esaminato – l’inferiorizzazione delle diversità culturali e la tendenza antiegualitaria – sembrano complementari e reciprocamente coerenti. Indicano un certo progetto di scuola. Un progetto che, al di là delle dichiarazioni di principio, non va realmente nella direzione della piena emancipazione di tutti i futuri cittadini. Proteo coltiva un’idea di scuola differente.
Riferimenti bibliografici essenziali
Baldacci M. (2005), Personalizzazione o individualizzazione?, Erickson, Trento.
Ferrajoli L. (2016), La democrazia costituzionale, Il Mulino, Bologna.
Galli della Loggia E., Perla L. (2023), Insegnare l’Italia, Scholé, Brescia.
Gardner H. (1987), Formae mentis, Feltrinelli, Milano.
Hall S. (2006), Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali, Meltemi, Roma.
Hawkins D. (1982), Scienza ed etica dell’uguaglianza, Loescher, Torino.
Karmiloff-Smith A. (1995), Oltre la mente modulare, Il Mulino, Bologna.
Lewontin R.C. (1993), Biologia come ideologia, Boringhieri, Torino.
Leowntin R. C. (1998), Gene, organismo e ambiente, Laterza, Roma-Bari.
Losurdo D. (2005), Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari.
Said W.E. (2003), Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano.
Taylor C. (2002), La politica del riconoscimento, in Habermas J, Taylor C., Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano.
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