Religione ed esame di Stato. Un malizioso tentativo di discriminazione?
Il passaggio dell’ordinanza sugli esami di stato riguardante insegnanti e insegnamento di religione cattolica negli scrutini di ammissione non può e non deve dare luogo a comportamenti diversi da quelli finora praticati, onde evitare discriminazioni intollerabili
Come un cerino gettato sulla benzina sembra aver preso rapidamente fuoco la polemica sull’insegnamento della religione cattolica. Ad attizzarlo sicuramente concorre un clima più generale e, tra accuse di terrorismo a presentatori televisivi e a minacce di scomunica a parlamentari (messicani, questa volta!), le pesanti ingerenze nella vita politica del nostro e di altri paesi che vengono da Oltre Tevere.
Per quello che riguarda la scuola, c’erano state le sentenze di alcuni TAR, prontamente cavalcate da chi non aspettava altro e su cui siamo già intervenuti, e un preocupante passaggio dell’ordinanza sulle metodologie operative relative all’esame di Stato (O 26 del 14 marzo 2007), che così recita:
“I docenti che svolgono l’insegnamento della religione cattolica partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento. Analoga posizione compete, in sede di attribuzione del credito scolastico, ai docenti delle attività didattiche e formative alternative all’insegnamento della religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le attività medesime”
Il passo in questione, tuttavia, se costituisce una novità per l’ordinanza sulle metodologie operative, non lo costituisce per le ordinanze sugli esami di stato in genere. Era presente infatti con una formula identica nel testo delle ordinanze intitolate “Norme per lo svolgimento di esami e scrutini nelle scuole elementari, medie e secondarie di secondo grado” emanate nel 1999 (OM 128 del 14 maggio, art. 8), prorogatanel 2000 senza modifiche all’articolo in questione, e nel 2001 (OM 126 del 20 aprile, art. 14) prorogata nel2002.
Da ciò si sarebbe dovuto dedurre che il passo non avrebbe dovuto comportare modifiche per lo meno nei comportamenti fino ad oggi tenuti durante gli scrutini.
Ma il decreto sugli esami di stato ha anche appesantito la cosa prevedendo di fatto tutta una casistica specifica (nell’ordine: IRC e attività alternative, studio individuale vigilato, studio individuale non vigilato, non frequenza con attività fuori dalla scuola, non frequenza senza attività fuori dalla scuola) che lascia intendere diversi gradi di “impegno e/o disimpegno”, e quindi di valutazione più o meno consistente della frequenza dell’IRC e delle attività alternative, delle altre “soluzioni” possibili fino a “valutazione zero” , di fatto, per chi opta per la non frequenza e basta.
Una simile scelta e le interpretazioni che ne possono derivare mettono in discussione la regolarità di esami in cui la frequenza o meno dell’Insegnamento della Religione Cattolica finisce col costituire un elemento di differenziazione nel credito scolastico tale da pesare nell’esito delle alunne e degli alunni.
Se poi si aggiunge che negli anni terminali della secondaria superiore, dove gli alunni sono maggiorenni, condizione che riduce gli obblighi di permanenza a scuola per gli alunni, la non frequenza è la soluzione più praticata, ci si accorge che siamo di fronte a un problema di non piccole dimensioni.
Si viola dunque, di fatto e di diritto, un principio costituzionale.
Ma non solo: si violaanche una solida giurisdizione in merito.
A tale proposito, infatti, va ricordato quanto espresso dalla Corte Costituzionale nelle sentenza n.203 del 1989:
“Per quanti decidano di non avvalersene l'alternativa é uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l'esercizio della libertà costituzionale di religione.”
Quindi è lo stato di non-obbligo che va in primo luogo salvaguardato nella sua totalità e che non può essere perciò confuso con uno stato di disimpegno graduato a seconda delle soluzioni alternative alla IRC adottate.
A conferma di ciò fece seguito la sentenza n. 13 del 1991 che recita:
“Occorre qui richiamare il valore finalistico dello “stato di non obbligo”, che è di non rendere equivalenti e alternativi l’insegnamento della religione cattolica ed altro impegno scolastico, per non condizionare dall’esterno della coscienza individuale l’esercizio di una libertà costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l’interiorità della persona”.
Va notato che le due sentenze in questione si configuravano come tutt’altro che favorevoli ai ricorsi delle “parti laiche”, i quali riguardavano in entrambi i casi l’estromissione dell’IRC dall’orario scolastico. Ciò non ostante esse non hanno potuto fare a meno di ribadire il diritto dell’alunna o dell’alunno a non frequentare alcunché senza che ciò dovesse essere considerato un disimpegno per lo stesso o un invito al disimpegno anche per gli avvalentisi, dal momento che ad entrambe le scelte sono riconosciute motivazioni talmente profonde da non poter essere scalfite dall’offerta di opzioni diverse.
Nessuno quindi nega che l’insegnante e l’insegnamento di religione cattolica concorrano alla valutazione dell’alunno, ma non al punto da costituire una differenziazione, sia nel numero di voti esprimibili sia nella valutazione di merito, tale da “ condizionare dall’esterno della coscienza individuale l’esercizio di una libertà costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l’interiorità della persona”.
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