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Università: Il Governo chiede il voto di fiducia e chiude la discussione sul testo.

Dal punto di vista dei contenuti, non valgono a migliorare il bilancio del provvedimento le soddisfatte dichiarazioni del Ministro Gelmini, che, del tutto a sproposito, parla di un provvedimento contenente importanti modifiche per l’Università italiana: le modifiche ci sono, ma riescono ad essere perfino peggiorative del disastroso quadro prodotto dalla L. 133.

08/01/2009
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Nella giornata di oggi previsto il voto conclusivo sul Decreto Legge 180/08

Nel tardo pomeriggio di oggi, 7 gennaio, con possibile conclusione domani, avrà luogo alla Camera il voto conclusivo sul testo del decreto 180, sul quale il Governo ha posto il voto di fiducia. Se non intervengono decisioni diverse, il testo posto in votazione sarà perciò quello approvato dal Senato il 28 novembre, sul quale avevamo già espresso un dettagliato commento, svuotando del tutto di significato la discussione svolta alla Camera e gli emendamenti presentati.

Dal punto di vista del metodo, si ripropone perciò esattamente quanto è accaduto per i precedenti interventi legislativi: l’espropriazione del dibattito parlamentare (oltre che del confronto con i soggetti rappresentativi interessati), e l’approvazione di misure unilaterali del Governo.

Dal punto di vista dei contenuti, non valgono a migliorare il bilancio del provvedimento le soddisfatte dichiarazioni del Ministro Gelmini, che, del tutto a sproposito, parla di un provvedimento contenente importanti modifiche per l’Università italiana: le modifiche ci sono, ma riescono ad essere perfino peggiorative del disastroso quadro prodotto dalla L. 133.

Per quanto riguarda il personale infatti, il blocco totale del reclutamento per tutti gli Atenei che superano il tetto del 90% alle spese di personale, introdotto con il decreto 180, rappresenta un vincolo che, a partire dall’anno prossimo, impedirà nella grande maggioranza degli Atenei la sostituzione del personale in uscita.Con i tagli di finanziamenti previsti dalla L.133, anche gli Atenei fino ad oggi virtuosi finiranno quasi inevitabilmente oltre il tetto del 90%: e a fronte del grande numero di pensionamenti previsti, questa norma desertifica gran parte dell’Università italiana, completando, sul fronte degli organici, la destrutturazione dell’Università pubblica compiuta sul fronte dei finanziamenti dalla L. 133. In questo modo, inoltre, viene di fatto vanificato l’allargamento del turn-over dal 20% al 50%, che il decreto prevede, poiché solo pochi potranno usufruirne.

Le sbandierate norme sulla concorsualità all’insegna della trasparenza, che dovrebbero trasformare l’Università in un luogo di virtù, sono in realtà poca cosa, che non intacca il nodo complesso e difficile della qualità e serietà del reclutamento; nodo che avrebbe bisogno di una trattazione sistematica e condivisa, all’interno di una riflessione sullo stato giuridico e sulla carriera dei docenti, in un provvedimento ad hoc, meditato e realmente innovativo, come tutte le organizzazioni sindacali dell’Università hanno chiesto. Non certamente di piccola manutenzione, che peraltro si realizza intervenendo sui concorsi già banditi, dando luogo a disparità di trattamenti tra Atenei e ad un prevedibile contenzioso senza fine.

Il decreto, inoltre, istituzionalizza la figura del ricercatore a tempo determinato, che già la Legge Moratti aveva previsto, ma che solo pochi avevano utilizzato. Non ci vogliono capacità profetiche per capire che da domani il reclutamento eventuale di ricercatori si realizzerà prevalentemente, se non esclusivamente, attraverso contratti a tempo determinato. Esattamente l’antitesi di quanto sarebbe oggi necessario: un piano straordinario di reclutamento di giovani, e la ripresa di un meccanismo di reclutamento ordinario a regime che consenta di far fronte in modo ordinato e programmato all’enorme serbatoio del precariato e ai vuoti che il pensionamento apre tra docenti e ricercatori. Il tempo determinato ha un senso nel quadro di un’Università in grado di programmare gli accessi di docenti e ricercatori, con regole e tempi certi, come strumento di avvìo alla carriera, non certo come prospettiva di ulteriore precarizzazione di un mercato del lavoro già frantumato.

Inoltre, sempre rispetto alla Legge Moratti si compie un balzo in avanti in negativo: viene abolito il tetto del 10%, già molto “generoso”, alle chiamate dirette e per chiara fama. Teoricamente, da domani gli Atenei potranno realizzare tutte le assunzioni per chiamata diretta, motivandole con la “qualità scientifica”; alla faccia del merito, della trasparenza, dell’imparzialità dei concorsi.

Il decreto prevede che gli scatti stipendiali vengano dimezzati ai docenti che negli ultimi due anni non hanno prodotto pubblicazioni, ignorando il fatto che in molti casi le pubblicazioni fatte seriamente si modellano sui tempi della ricerca, tempi che certamente non si misurano in pochi mesi: l’intento di elevare la produttività scientifica è certamente condivisibile, ma è facile prevedere che in questo modo si incentiva solo il consumo di carta a detrimento della qualità, poiché pur di non perdere gli scatti di una retribuzione sempre più lontana dagli standard europei, l’incentivo sarà a produrre ricerche a prescindere. E in tutto il mondo i criteri di giudizio della validità scientifica delle pubblicazioni sono patrimonio condiviso della comunità scientifica, non certo di indirizzi ministeriali.

Non tutto il decreto è negativo; vi sono aspetti condivisibili, come l’incremento delle borse di studio, o l’allocazione di un 7% del finanziamento su criteri di qualità; ma, anche in questo caso, quali criteri, concretamente, visto che la loro determinazione è di nuovo rimandata a decreti da emanarsi nel 2009? Anche questi aspetti sono completamente offuscati da un impianto punitivo per gli Atenei e per i docenti e ricercatori, perfettamente in linea con l’ispirazione della L.133. E del resto le martellanti campagne di stampa, con il supporto appassionato di esponenti di spicco della maggioranza, tese a dimostrare che tutta l’Università è senza eccezione un covo di nequizia, di inefficienza e di violenza ideologica (da che pulpito), esprimono chiaramente la vera linea governativa sull’alta formazione e la ricerca: un’istituzione che va normalizzata, riportando ad operoso silenzio e a curiale obbedienza una categoria che cerca di fare ciò per cui è pagata: far funzionare il cervello.

Ma l’Università italiana ha una storia quasi millenaria, ed è passata per ben altre forche caudine senza perdere l’indipendenza e la capacità critica. La FLC intende mettere in campo tutta la sua capacità di mobilitazione per difenderne la natura e la libertà.

Roma, 7 gennaio 2009

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