
Mentre stavo all’estero, piangevo pensando all’Italia
Oggi riportiamo la voce di Ovidia, giovane studentessa italiana, figlia di genitori rumeni che vive l’Italia come “Patria” ma non ha la cittadinanza e spera nel buon esito referendario per vedere quantomeno la riduzione, da dieci a cinque anni, del periodo continuativo di residenza previsto oggi come requisito


All’assemblea delle donne delegate della CGIL della Campania che si è svolta a Napoli il 2 aprile, abbiamo incontrato Ovidia P., studentessa al terzo anno della Facoltà di Giurisprudenza a Benevento, Università del Sannio. Interviene all’assemblea come rappresentante dell’UDU.
Ovidia dice di sé: Sono figlia di immigrati rumeni, seconda generazione, e nonostante sia cresciuta qui, abbia studiato e ancora studi qui e stia dimostrando tutta la mia intenzione di lavorare per questo Paese, comunque non ho ancora la cittadinanza. Perché? Perché qualche anno fa sono andata per qualche tempo in Germania. Per fare un’esperienza all’estero, per imparare una lingua straniera.
Questo ha fatto sì che lo Stato italiano abbia ritenuto che io avessi rotto quella prescrizione di residenza continuativa per dieci anni, senza interruzione, che fa parte dei requisiti richiesti per ottenere la cittadinanza” (nota di redazione: la vittoria al referendum consentirebbe, quanto meno di ridurre quel periodo da dieci a cinque anni).
“Insomma - continua Ovidia - vige il principio che la cittadinanza te la devi meritare.
Per me invece la cittadinanza è diritto di appartenere. E io mi sento di appartenere all’Italia. Quando sono stata in Germania per quell’esperienza all’estero, io piangevo pensando all’Italia.
Quando sono tornata, ho pensato “Ecco, sono tornata nella mia Patria”.
Così come tanti altri ragazzi e ragazze come me, comunitari o non comunitari, sentono di appartenere all’Italia. Nonostante ciò, magari si trovano a frequentare l’Università e a stare col fiato sospeso, con il terrore di non superare un numero sufficiente di esami per avere rinnovato il permesso di soggiorno. Oppure vengono esclusi dalle borse di studio.
Questo è già un fallimento dello Stato. Occorre considerare che, se non sarà tra cinque anni sarà fra dieci, questi giovani come me, arriveranno ad avere la cittadinanza. Più questa viene differita, più si protrae una condizione di vulnerabilità, di forte limitazione o di negazione di diritti, di sostanziale discriminazione e più aumentano i rischi per la salute mentale. Stiamo parlando di futuri cittadini che vanno tutelati e valorizzati già da adesso.
E bisogna capire che, per quanto riguarda i referendum, c’è un filo rosso che li collega. Bisogna ragionare in termini di intersezionalità. I diritti non vanno schematizzati o isolati. Il lavoro, la lotta al precariato, la sicurezza sul lavoro, riguardano sia gli italiani autoctoni che i nuovi italiani. Anche quella per la salute mentale è una lotta intersezionale, come quella per le borse di studio, per gli alloggi universitari. Tutto si lega. Per questo l’8 e 9 giugno bisogna votare sì, a tutti i quesiti.
Queste le parole di Ovidia. Ad ascoltarla, sorge spontanea una domanda: ma che ci guadagna l’Italia, questo Paese che lei vive come “Patria”, a complicare terribilmente se non a impedire il percorso verso l’acquisizione della cittadinanza a tanti giovani come lei? La risposta è facile. Non ci guadagna nulla, anzi così si mortificano risorse importanti per il futuro di questo Paese. Ma bisogna che cresca la consapevolezza di questo e che si riversi nel voto ai referendum del 8 e 9 giugno.
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