Corsi di recupero: come sempre piove sul bagnato
Una ricerca mette in luce i limiti dell'esperienza dei corsi di recupero e delle verifiche entro l'anno scolastico.
Che la scuola assomigli ad un ospedale in cui si curano i sani e si lasciano morire i malati lo ha detto, qualche decennio fa, Don Milani.
Ma la cosa sembra confermata da una ricerca, per altro molto interessante, svolta dall'IRVAPP (Istituto per la Ricerca Valutativa sulle Politiche Pubbliche) con il sostegno del Dipartimento Istruzione della Provincia autonoma di Trento, sull'efficacia dei corsi di recupero.
Molti ricorderanno che nel 2007 l'allora Ministro Fioroni rese di nuovo obbligatori i corsi di recupero ed in qualche modo anche le prove di riparazione, stabilendo che dovessero essere fatti nel corso dello stesso anno in cui le insufficienze venivano rilevate (e non l'anno successivo come avveniva in molte scuole). La Provincia di Trento, forte delle sue prerogative di autonomia, decise di non attivare tale indicazione, considerando l'operato delle proprie scuole in tema di recupero sufficientemente efficace.
Quale migliore occasione, a tre anni da quegli avvenimenti, per tentare una valutazione mettendo a confronto i risultati delle scuole secondarie superiori di Trento con quelli del resto d'Italia?
E' quello che, per l'appunto, ha fatto l'IRVAPP mettendo a confronto le scuole di tre comuni trentini – Trento, Rovereto e Riva del Garda – con le scuole di altrettanti comuni, con caratteristiche socioeconomiche simili e collocazioni geografiche compatibili – Schio (VI), Bolzano e Desenzano del Garda (BS). La valutazione è stata effettuata utilizzando i parametri PISA.
I risultati della ricerca sono stati oggetto di una conferenza che si è svolta al CNEL martedì 8 giugno.
Dalla ricerca è emerso che mentre per gli alunni dei licei vi è un certo qual beneficio dal sistema “messo a punto” da Fioroni, per gli alunni degli istituti tecnici e professionali non si riscontra la medesima efficacia. Ma, dal momento che il grosso delle “insufficienze” sono nei tecnici e nei professionali, dire ciò equivale a dire che il modello non funziona proprio laddove più serve.
Tali conclusioni non hanno tuttavia sciolto il nodo di fondo della discussione, che ha fatto seguito all'illustrazione dei dati della ricerca.
Da una parte, infatti, la presidente della VII Commissione della Camera, on. Aprea ne deduceva la giustezza di una politica scolastica che separasse nettamente i licei dai tecnici e dai professionali, riconoscendo a queste due tipologie scolastiche la corrispondenza con altrettante tipologie di intelligenza degli alunni.
Dall'altra la sociologa Chiara Saraceno, con una posizione opposta, invitava invece ad amalgamare i diversi soggetti, riconoscendovi alla base non tanto delle differenze di intelligenza quanto delle differenze economiche e culturali, riferibili alla provenienza sociale.
Dal nostro punto di vista (rimasto inespresso per ragioni sia di tempo che per le modalità della conferenza) è evidente che il modello, ripetizione (anche se pubblica e gratuita) + “esame” di riparazione, riproduce un modello didattico tipicamente frontale e liceale. Perciò è naturale che sia più efficace laddove questa modalità è in qualche modo la regola, condivisa o ingoiata che sia.
Ma quel risultato non è tanto dipendente dal tipo di scuola frequentata, quanto piuttosto è la scelta stessa del tipo di scuola che è rivelatrice di un bisogno diverso e diffuso di modelli educativi meno frontali e meno astratti dalla realtà pratica che ogni ragazzo vive.
Roma, 11 giugno 2010
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