Chiamata diretta dei supplenti? Una misura voluta da chi strumentalizza le disfunzioni del reclutamento per sostenere un modello aziendalistico di scuola
Organici stabili, continuità didattica, formazione del personale e un clima di collaborazione e fiducia: sono questi gli ingredienti di una scuola che funziona.
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Negli ultimi 20 anni ogni nuovo ministro insediato a viale Trastevere ha inserito tra i primi provvedimenti varati una riforma del reclutamento: corsi a pagamento, specializzazioni a carico dello stato, corsi annuali, triennali o biennali, SSIS, PAS, TFA e FIT, concorsi speciali, ordinari, riservati, straordinari e corsi concorsi. Un sistema in rimaneggiamento permanente, che non ha offerto certezze e percorsi lineari né ai giovani laureati né a chi, proprio a causa dei limiti del sistema stesso, ha accumulato anni e anni di precariato alle spalle.
I risultati sono gli occhi di tutti, e come FLC li abbiamo puntualmente denunciati, con più del 50% di cattedre non assegnate ai ruoli e migliaia di posti in deroga sui quali da anni si avvicendano lavoratori precari.
Ora, affermare che la soluzione del problema sia la chiamata diretta dei supplenti significa dare una rappresentazione sbagliata dei bisogni della scuola, non realistica e ideologicamente orientata ad affermare un modello aziendalistico, a spese di quella trasparenza ed oggettività, che invece dovrebbe caratterizzare il sistema di reclutamento di un settore pubblico quale l’istruzione.
La conoscenza nel nostro Paese, e l’istruzione in particolare, negli anni della crisi economica è stata un settore da cui sono state saccheggiate risorse nell’ordine di diversi miliardi di euro.
Nel 2000 investivamo in istruzione il 4,71% del PIL, nel 2016 siamo arrivati al 3,9% e siamo al terzultimo posto dei Paesi OCSE.
La scuola negli ultimi 20 anni è stata anche al centro di una serie di provvedimenti tutti tesi ad affermare un modello di conoscenza piegato alle logiche del mercato, dove l’emancipazione, la crescita culturale e educativa dei futuri cittadini è passata in secondo piano rispetto all’obiettivo di trasmettere competenze spendibili in modo immediato nel mercato del lavoro. A questo modello hanno fatto da corollario una serie di provvedimenti tutti tesi ad affermare un modello di governance antidemocratica: il tentativo di riforma degli organi collegiali in senso autoritario, la chiamata diretta dei docenti, il bonus del merito, la restrizione degli spazi di contrattazione, l’impossibilità per gli ATA di contrattare orari e organizzazione del lavoro. Molti punti di eccellenza della scuola italiana sono stati sacrificati alla logica dei tagli: il modulo, il tempo pieno, le attività laboratoriali, i tempi distesi della didattica, la continuità, il sostegno e l’inclusione degli studenti con disabilità.
Ma è chiaro che in queste condizioni la scuola non può funzionare al meglio delle proprie potenzialità: occorre continuità didattica, le cattedre libre vanno coperte assumendo personale di ruolo e non con la chiamata diretta dei supplenti, un modello già fallito che il CCNL ha superato. Con le nomine dalle graduatorie d’istituto quest’anno si sono dovuti coprire più di 100.000 posti vacanti, mentre le supplenze andrebbero ricondotte nell’ambito delle sostituzioni per assenze brevi e i posti disponibili andrebbero assegnati ai ruoli. Alla scuola serve formazione continua del personale e aggiornamento rivolto a tutte le professionalità, compresi gli ATA che troppo spesso vengono dimenticati.
Bisogna smettere di attaccare la scuola e chi vi opera con un sistematico tentativo di delegittimazione sociale, gli effetti di queste politiche sono deleterie per l’educazione dei giovani. E occorre ricostruire un clima di fiducia e collaborazione, salvaguardando quell’essere della scuola “comunità che educa” e che cresce collettivamente nella realizzazione della funzione sociale che le assegna la Costituzione.
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