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Unità: Ricerca: Confindustria e l’ossessione del profitto immediato

Carlo Bernardini

21/03/2008
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l'Unità

I dati ci sono: sono ben ordinati, comprensbili ed estremamente utili: c’è il libro di Pietro Greco e Settimo Termini, «Contro il declino», che contiene «tutto quello che avreste voluto sapere sulla ricerca e (forse) non avete mai osato chiedere». Ci sono anche le raccolte preparate dall’Enea, rcchissime e in grado di dissipare ogni dubbio. Si tratta dunque di mettersi lì con un po’ di buona volontà e capire qual è il vero problema, aiutandosi con quello che già succede da molto tempo in tutto il resto del mondo sviluppato. Il che si riassume in poche sentenze lapalissiane: la ricerca, soprattutto quella di base, è un investimento. Ma non rende subito, bisogna avere i tempi lunghi necessari perché i risultati germoglino, incrociandosi - per di più - tra loro. Se guardassimo a ciò che è successo nelle “scienze ibride” (per esempio, biofisica, biochimica, biomedicina, astrofisica, geochimica, chimica-fisica, econo-fisica e via discorrendo) impareremmo tutti che le sorprese sono inesauribili, a patto che si allentino le briglie dell’immaginazione che è il motore più importante della conoscenza innovativa. Ma questo sarebbe solo un esempio di facile identificazione ed analisi. Non c’è settore in cui i giovani si impegnino seriamente che non dia prima o poi quei risultati che cambiano profondamente la vita di tutti: risorse, tecnologie quasi miracolose, mutamenti nella vita degli individui, ecc.
Per ottenere questo bisogna smetterla di buttare nel forno dell’imprenditoria i ricercatori autonomi e brillanti, come hanno preteso di fare alcuni dei responsabili designati dal governo precedente. La miopia mercantile vede solo il profitto immediato; dopodiché, è facile che qualcuno sostenga che per un paese culturalmente ottocentesco la cosa migliore è di dedicarsi a “piccole e medie imprese” e promuovere una imprenditoria dirigistica che non sa mettere un po’ di competenze avanzate e di genialità nel programmare il futuro. Dopo un articolo di Pietro Greco su l’Unità dell’11 marzo, un articolo di due vicepresidenti di Confindustria, Pasquale Pistorio e Gianfelice Rocca, sullo stesso giornale il successivo 13 marzo ha riesumato una prospettiva più dimessa, almeno nelle idee esposte da uno degli autori (Rocca). Il dottor Pistorio è un personaggio di primo piano, molto attento alle strategie industriali di ricerca: ma stride il confronto tra ciò che a lui si può attribuire e ciò che dichiara l’altro vicepresidente.
Cambiamo impostazione, per carità: forse siamo ancora in tempo. Gli scienziati italiani, abbandonati e affamati dalle politiche di governo, fanno parte di una comunità internazionale in cui non sono affatto considerati marginali. Non si rifiutano certo di essere utili al Paese, ma non possono rinunciare alla libertà di ricerca per correre appresso a programmi disegnati da manager che si preoccupano solo di problemi di mercato. Forse, la signora Marcegaglia può dare un autorevole impulso alla qualità della ricerca industriale: per investimenti e, soprattutto, per scelta dei destinatari della massima attenzione anche da parte delle imprese. È un problema di cultura scientifica e tecnologica. Se i cinesi e gli indiani riescono a riemergere da una lunga notte della conoscenza scientifica, è solo perché non sono i giovani a causare difficoltà ma chi li governa: e, forse, anche quei governanti, pur nell’ostinazione ideologica che ha frenato il loro sviluppo, hanno finalmente capito qual è il loro bene. Cosa facciamo, ci mettiamo all’inseguimento? Sono troppo veloci e non abbiamo tempo per fare divampare uno sforzo nazionale confrontabile a quello di chi non ha mai avuto nulla per emergere; tuttavia abbiamo una tradizione nel campo della formazione e, siccome l’intelligenza non è un bene commerciabile, forse, tra i nostri cervelli già fuggiti o in fuga imminente, potremmo recuperarne un bel po’ per fare quello che siamo ancora in tempo a fare: diamo loro spazio, remunerazioni decenti e libertà di invenzione.
Il segreto è sempre quello di cui parlava Antonio Ruberti: riconoscere l’intelligenza come il più remunerativo dei beni immateriali, dedicando risorse all’organizzazione di scuole, di centri di libero scambio di idee, di osservatori in cui riconoscere e valorizzare il merito.


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