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Unità: Ricerca, il dubbio di Confindustria

Pietro Greco Per il bene del Paese, Confindustria deve dunque uscire dalla sua ambiguità. Deve dire quale innovazione vuole, l’innovazione “hi-tech” o “l’altra innovazione”? Ma la domanda non riguarda solo gli industriali. Riguarda anche i sindacati. E riguarda soprattutto la politica.

11/03/2008
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l'Unità

C’è un nodo che Confindustria deve sciogliere: quale innovazione vuole? Quella hi-tech proposta la scorsa settimana a Roma nel corso della Giornata dedicata alla ricerca e, appunto, all’innovazione da Pasquale Pistorio e fondata sulla produzione di beni, materiali e immateriali, ad alta tecnologia o l’“innovazione combinatoria” ribadita da altri suoi autorevoli dirigenti, per esempio Gianfelice Rocca, che punta sulla produzione di beni di media e bassa tecnologia, confezionato con qualche elemento di “italianità”?
Non è una scelta da poco, anche se poco se ne discute. È una scelta che riguarda il modello di sviluppo e il futuro stesso del nostro paese nell’ambito dell’economia globalizzata.
La prima interpretazione della parola “innovazione”, quella proposta da Pasquale Pistorio e considerata trainante dagli industriali in ogni parte del mondo nell’era della conoscenza, presuppone un’uscita in mare aperto e un cambiamento radicale della specializzazione produttiva del sistema Paese. Ancora fondata, certo, sull’industria manifatturiera. Ma su un’industria che innova in primo luogo il prodotto - che crea, in altri termini, “cose nuove” - e accetta di misurarsi con tutte le altre economie, mature ed emergenti, nel settore dei beni ad alta tecnologia.
L’“altra innovazione”, quella proposta con diverse modulazioni da almeno quarant’anni in Viale Astronomia, presuppone di andare avanti tutto sommato alla vecchia maniera e di puntare ancora sulla “diversità italiana”: con un’industria manifatturiera che sceglie nicchie isolate di mercato e fa leva sul basso costo del lavoro. Innovando non il prodotto, ma il processo, il marketing, le tecniche di management, l’organizzazione del lavoro. Che dunque porta avanti, magari con l’innegabile creatività e originalità italiana, la ricomposizione di prodotti già esistenti e, mediante l’acquisto di brevetti, di conoscenze generate fuori dai confini d’Italia. Ma evitando di misura con le altre economie nel settore delle tecnologie di punta, ma cerca di continuare a ritagliarsi nicchie esclusive in settori di mercato non battuti dagli altri.
I due modelli non sono conciliabili. Il primo, quello alla Pistorio, è un modello di sviluppo fondato sulla ricerca scientifica. Presuppone almeno tre passaggi. Un lucido intervento pubblico, con maggiori investimenti dello stato sia in ricerca scientifica che in alta formazione (Pistorio chiede una crescita degli investimenti per la ricerca pubblica del 5% annuo). Un netto incremento della spesa diretta delle imprese in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico che oggi, unica in tutto il mondo a economia matura o emergente non supera lo 0,2% del Pil (Pistorio chiede che il paese investa raddoppi gli investimenti in ricerca entro il 2011 e li triplichi entro il 2015; il che significa un’industria che aumenta gli investimenti in sviluppo tecnologico di almeno 5 volte). Richiede aiuti altamente selettivi alle imprese. Ma, soprattutto, una nuova imprenditorialità, con una nuova cultura industriale, che accetta la competizione sui mercati internazionali e non cerca di evitarla.
Il secondo modello, quello dell’“altra innovazione” o dell’“innovazione combinatoria” chiede altro. Chiede all’industria di modificarsi, continuamente, ma non chiede “un’altra industria”. Chiede basso costo del lavoro, attraverso un incremento (ancora?) della flessibilità. Non chiede sostegni particolarmente selettivi alle imprese. Non chiede una scuola e un’università capaci di creare un ambiente adatto all’innovazione (compreso nuove tipologie di imprenditori). Chiede piuttosto alla scuola e all'università di porsi direttamente al servizio dell’industria attuale, formando i tecnici e gli operai necessari di cui hanno bisogno oggi le imprese.
Noi pensiamo che il primo modello sia di gran lunga preferibile. Essenzialmente per tre motivi.
Primo: consentirebbe al Paese di crescere di più. Il settore hi tech cresce più velocemente degli altri e ciò spiega perché Italia, con la sua specializzazione produttiva fondata sulle medie e basse tecnologie, dall’inizio degli anni ‘90 ha visto la sua ricchezza totale e procapite crescere meno della media europea.
Secondo: consente ai lavoratori di guadagnare di più. Le industrie hi-tech hanno bisogno di lavoro più qualificato e, quindi, pagano stipendi maggiori. Un’espansione dell’industria ad alta tecnologia, consentirebbe un aumento del salario medio dei lavoratori che in Italia è, non a caso, inferiore a quello della gran parte dei Paesi del resto d’Europa.
Terzo: un’economia fondata sulla conoscenza consentirebbe di qualificare meglio lo sviluppo, sia in termini sociali (più ricchezza, migliori salari), sia in termini ecologici. Potrebbe essere caratterizzata, per esempio, sia dall'uso di energie rinnovabili e “carbon free” sia da processi di de-materializzazione (meno materia per produrre un'unità di reddito e/o di funzione) e di de-energizzazione (meno energia per produrre un’unità di reddito e/o di funzione), con un minore impatto sull’ambiente.
Per il bene del Paese, Confindustria deve dunque uscire dalla sua ambiguità. Deve dire quale innovazione vuole, l’innovazione “hi-tech” o “l’altra innovazione”? Ma la domanda non riguarda solo gli industriali. Riguarda anche i sindacati. E riguarda soprattutto la politica.
Riguarda anche e soprattutto il centrosinistra. Sia il Partito democratico che la Sinistra arcobaleno devono indicare se e come l’Italia deve entrare nell’economia della conoscenza. Se e quale innovazione vogliono. Come qualificare, socialmente ed ecologicamente, l’innovazione. Sono questi i nodi decisivi per il futuro del nostro Paese.


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