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Unità-Confusione e ordine, gli studenti non si giudicano (solo) da quello...

Confusione e ordine, gli studenti non si giudicano (solo) da quello... Luigi Galella Non riesco a tenere in ordine il mio registro di classe. Inizio l'anno animato da buoni propositi,...

31/10/2005
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l'Unità

Confusione e ordine, gli studenti non si giudicano (solo) da quello...

Luigi Galella

Non riesco a tenere in ordine il mio registro di classe. Inizio l'anno animato da buoni propositi, annotando a ogni lezione i singoli argomenti trattati, ma poi col passare del tempo, per distrazione o per fretta, finisco per dimenticare questa o quella incombenza. Potrei dire, così, che il mio diario personale registra indirettamente i miei ritardi, la mia incapacità agli adempimenti burocratici.
A volte ragiono sul significato dell'essere un buon studente. Non sono veramente sicuro di conoscerlo. Noi insegnanti abitualmente premiamo coloro che ci seguono con attenzione dall'inizio alla fine dell'ora, che ci gratificano, che sono ordinati e disciplinati, e io stesso mi sorprendo sempre più spesso a consigliare i miei studenti a organizzare il loro lavoro con metodo. Dovrei aggiungere, ma evito: non come faccio o facevo io. Che in realtà non ho mai studiato in maniera sistematica. L'idea stessa del quaderno pulito mi comunicava un'intima repulsione. Forse perché equivaleva all'accettazione implicita del mio ruolo. Intravedevo dietro il nitore dei quaderni e l'ordine delle parole allineate sulla pagina, dietro i singoli compiti che docilmente s'andavano disponendo foglio dopo foglio, l'idea inquietante del tempo che trascorreva. Era forse questo il motivo inconscio delle mie resistenze. Essere ordinati, ovvero accettare le cose così com'erano: il tempo, la vita, la morte. Benché abbia memoria del mio passato, non sono oggi sempre indulgente nei confronti dei miei alunni. Mi infastidisce vederli distratti o annoiati e qualche volta li rimprovero per come si comportano a lezione. Del resto non si può non considerare che i "migliori" di loro, quelli più ubbidienti e rispettosi, non fanno altro che conformarsi al calco ideale che ritengono corrispondente alle nostre esplicite o implicite richieste. Sono "ciò che noi vogliamo che siano", addestrati a replicare un modello ideale senza introiettarlo. E talvolta esprimono nei loro silenzi, nella loro rigidità posturale, un che di sofferto, di psicologicamente incompiuto. Tempo fa in un tema di un mio alunno, timidissimo e impeccabile, uno di quelli con la testa orientata verso l'insegnante dall'inizio alla fine dell'ora, lessi qualcosa che mi sorprese: l'accenno di una confessione in cui si manifestava tutto il disagio di figlio e di studente perfetto. La sua vita vissuta fino ad allora veniva dipinta come una sorta di incubo dal quale faticosamente stava uscendo. Era la prima volta che la sua personalità aveva il coraggio di rivelarsi, e lo faceva in una forma reticente e cauta, quasi ermetica. Ce n'era abbastanza tuttavia per percepire che nel suo mondo, in quel modo claustrale di vivere il dovere, era penetrato un soffio di vita. Da allora osservo in lui una lenta, progressiva metamorfosi. I suoi risultati scolastici, sempre buoni, sono lievemente peggiorati, ma lui sembra più felice, a suo agio con se stesso, confuso fra i suoi compagni, uno dei tanti, coi quali lo vedo talvolta abbandonarsi a qualche scherzo o a piccole, intime confidenze.
Il modello scolastico orientale, dove vige una cultura familiare e sociale che si fonda su principi autoritari, è costruito sul rispetto rigoroso e maniacale delle regole, sul senso del dovere, sulla disciplina. In Cina, in Corea, a Macao, la qualità dell'istruzione è molto alta, più che in Occidente. Sono paesi in cui un insuccesso scolastico è vissuto con un senso di colpa e di vergogna da tutta la famiglia, tuttavia i risultati molto buoni soprattutto nelle materie scientifiche hanno indotto alcuni, negli Stati Uniti, a pensare che sia un modello utile da importare. Per avere risultati "competitivi" e navigare nel mare magnum della globalizzazione a vele spiegate. Senza preoccuparsi troppo dello sviluppo della personalità dei ragazzi, senza attuare quelle terapie di ascolto o dialogo che sono addirittura controproducenti, ai fini dell'acquisizione delle "competenze cognitive". Per una scuola-caserma e un popolo di studenti-soldati. E una società, "soi-disant" democratica, che abbandonerebbe il modello ateniese, anacronistico, per quello spartano. Più efficiente e produttivo.
luigalel@tin.it


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