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Storia di Balbir, per imparare a guardare l’invisibile

Intervista a Marco Omizzolo, autore de “Il mio nome è Balbir” insieme al lavoratore indiano schiavizzato per anni dal suo padrone nella provincia di Latina

15/01/2025
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Collettiva.it

Di Emiliano Sbaraglia

Il mio nome è BalbirMarco Omizzolo è stato nominato nel 2019 cavaliere della Repubblica dal Presidente Sergio Mattarella per i il suo impegno contro lo sfruttamento lavorativo. Presidente di Tempi moderni, sociologo Eurispes, le sue inchieste si sono concentrate sulla condizione dei migranti nei campi dell’Agro pontino, compresi gli aspetti che coinvolgono le associazioni organizzate nel racket, le minacce e la violenza nei confronti delle persone costrette dal padronato a una vita d’inferno, come raccontato anche in Laboratorio criminale, pubblicato da People edizioni nel 2023. Per lo stesso editore Omizzolo è ora autore de Il mio nome è Balbir (pp. 144, euro 16) insieme a Balbir Singh, il protagonista di una delle tante storie di sfruttamento umano che ogni giorno si consumano nel nostro Paese, ma che almeno per una volta possono scrivere un lieto fine, sperando sia la prima di una lunga serie.

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Come nasce questo nuovo lavoro d’inchiesta?

Come tutti gli altri è un libro che parte da una storia reale, di quelle che questo paese produce sistematicamente per poi dimenticare. Racconta l’esperienza di Balbir Singh, questo uomo indiano per sei anni ridotto in schiavitù nella provincia di Latina, violando i diritti fondamentali della sua persona. Con lui abbiamo compiuto un percorso insieme, per recuperare libertà e giustizia. Il suo padrone lo pagava 150 euro al mese per lavorare dalle 16 alle 18 ore al giorno, oltre che picchiarlo. Ora, nella sentenza di primo grado è stato condannato a 5 anni di carcere. Questo per dire che una persona che noi chiamiamo invisibile, o clandestino, o invasore, ha invece permesso l’arresto di un imprenditore criminale di primissimo livello. Quindi considero questo lavoro non soltanto un libro di denuncia, perché insegna anche che dall’orrore dello sfruttamento si può uscire.

Possiamo raccontare la storia della tua conoscenza con Balbir Singh?
Questo è un aspetto interessante, perché mi ha permesso di cambiare la metodologia d’inchiesta e di ricerca sociale a me consueta.

In che modo?
Balbir viveva a 50 metri dal suo padrone in una roulotte, non poteva uscire, non potevo incontrarlo. Allora gli ho fatto recapitare in maniera, diciamo così, furbesca, un cellulare con viveri e coperte. Così per diverse settimane abbiamo comunicato di notte grazie al telefono, cominciando attraverso quella che definirei una pedagogia dell’ironia, dando inizio a una conoscenza reciproca. Pian piano questa relazione empatica si è trasformata in pedagogia della liberazione.

Vale a dire?
A un certo punto Balbir mi ha detto che non si sentiva più solo, ha capito che aveva dei diritti. In questo senso è stato determinante quanto fatto dal Comando provinciale e dai Carabinieri di Latina, e li devo ringraziare, perché Balbir ha così deciso di denunciare il padrone e costituirsi parte civile nel processo, una scelta fondamentale. Una volta liberato ci siamo incontrati anche di persona, e da quel momento ne è nato un rapporto stretto che ancora continua.

C’è un passaggio nel libro in cui Balbir racconta una testimonianza risalente al 2016, nella quale si rivolge a noi italiani dicendo “ci chiamate invisibili, eppure la nostra situazione è sotto gli occhi di tutti”. Dopo quasi un decennio qualcosa è cambiato?
No, questa diffusa retorica dell’invisibilità di donne, uomini e minori persiste, ma non sono invisibili. Si tratta soltanto di una scusa per restare pigramente e colpevolmente nella nostra quotidianità, perché queste persone sono davvero a un metro da noi, lavorano i nostri prodotti agricoli, curano i nostri anziani, ci servono al ristornate, compresi anche italiani e italiane.

Però sono invisibili…

Sono invisibili perché ci consideriamo privi di responsabilità, mentre siamo tutti coinvolti, come insegna Fabrizio De André, perché il nostro sistema economico e sociale si fonda su di loro. Balbir ci descrive i clienti che incontrava nel ristorante del suo padrone, quando lo vedevano vestito sempre allo stesso modo, trasandato, affaticato: ma nessuno gli ha mai chiesto “come stai? come posso esserti utile?”. L’indifferenza giustifica l’invisibilità. Balbir ci racconta anche che quando è andato a rinnovare il permesso di soggiorno in Questura nessuno gli ha mai domandato dove lavorasse e quali fossero le sue condizioni di lavoro. Se lo avessero fatto, gli avrebbero risparmiato quattro anni di schiavitù. Il paradosso è dunque che consideriamo i tanti Balbir o invisibili, o clandestini, entrambi concetti che ci rendono innocenti, ma non lo siamo, perché siamo un Paese che continua a parlare di carico di reddito, di clandestini, e che ancora tiene in vita la Bossi-Fini. “Siete colpevoli come il mio padrone”, grida Balbir. Un’accusa potentissima.

La legge sul caporalato sta producendo degli effetti?

Sul piano investigativo e giudiziario sì; il problema e che si interviene a dramma avvenuto, non prima del dramma, e le responsabilità non possono essere imputabili solo a forze dell’ordine o alle procure. Dovremmo cambiare l’ordine della politica e dell’economia per evitare sfruttamento, incidenti e morti sul lavoro.


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