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Malala:Non dobbiamo avere paura: l’istruzione ci rende più forti

Il libro «Io sono Malala», pubblicato da Garzanti nel 2013 e già un successo prima del Premio Nobel, è un testo in cui leggere, studiare, andare a scuola e pensare con la propria testa (e pure sognare un po’), insegnano a vedere entrambe le cose, il bene e il male, e a distinguerle

15/10/2014
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Corriere della sera

Il mondo visto con gli occhi di Malala è un posto bellissimo, con i fuochi delle cucine dei villaggi lontani nella valle, le lampade a petrolio che si accendono la sera, e il tetto piatto su cui sedersi a guardare le stelle a Mingora, la città in cui la più giovane Premio Nobel per la Pace è nata nel 1997, nella regione dello Swat in Pakistan. Poco distante c’è la scuola, da cui è stato cancellato il nome, ma che è il luogo dove si legge, e si impara, e si sogna; e sullo sfondo si vede l’altissima vetta del monte Elum con le sue nevi perenni, dove si spinse perfino Alessandro Magno — è la stessa Malala a raccontarlo — cercando di afferrare Giove. Ecco forse perché il 9 ottobre 2012 fu proprio ai suoi occhi, agli occhi di Malala, che i talebani mirarono, con tre colpi di arma da fuoco che ferirono, oltre lei, altre due ragazzine che viaggiavano sul pullman della scuola, di ritorno a casa.
Si apre così, con l’eccitazione di una nidiata di studentesse che tornano da scuola e con l’orrore degli spari improvvisi, un libro che è pieno di poesia anche se racconta di persecuzioni, di oppressione, di sangue, di un attentato contro una ragazzina di (allora) appena quindici anni che oggi ne ha diciassette. La poesia è nella voce, che orgogliosa e pacata, senza un solo fremito di paura e senza traccia di rabbia, racconta che cosa significa combattere la più pacifica delle battaglie in un mondo di guerre e violenza. Dove ai bambini rifugiati nei campi profughi, quando suo padre era bambino, si insegnava l’aritmetica con problemi come questo: «Quanto fa 15 pallottole meno 10 pallottole?».
Il libro «Io sono Malala», pubblicato da Garzanti nel 2013 e già un successo prima del Premio Nobel, è un testo in cui leggere, studiare, andare a scuola e pensare con la propria testa (e pure sognare un po’), insegnano a vedere entrambe le cose, il bene e il male, e a distinguerle, e a raccontarle: il bene, cioè le stelle sopra il mondo, i sogni dei ragazzini, il progetto di diventare uomini politici o scrittori o quello che si vuole; e il male, cioè il divieto di studiare, i morti e il sangue sulla strada di casa, la minaccia e la violenza dietro l’uscio.
Proprio quella cultura, quell’andare a scuola, quel leggere, rende Malala capace di narrare così bene, in modo tenero ma preciso, la storia della regione in cui vive, la storia di una famiglia pashtun , l’amore di mamma e papà che non si sono sposati per un matrimonio combinato, la vita con i genitori illuminati (anche se la mamma non sa leggere); ma anche l’ignoranza di molti, come quei parenti che entrano in casa sfoderando un albero genealogico che riporta soltanto i nomi dei maschi.
Malala racconta questo e va oltre, racconta la presa del potere dei talebani, parla di governi, di Cia, di russi, di potenze mondiali, e poi i profughi, i campi sterminati di migranti, le strade sbarrate, i posti di blocco, come può vederle una bambina che vorrebbe solo andare a scuola. E ci va. Anche fingendo di essere più piccola di quel che è (le scuole femminili erano state riaperte all’inizio del 2009, ma solo per le bambine sotto i dieci anni), raccontando tutto nel diario che un amico di famiglia le ha chiesto di tenere sul blog della BBC. Così conosciamo il suo pseudonimo online, «Gul Makai», apprendiamo come la ragazzina diventi un personaggio pubblico, intervistata dai giornali e dalle televisioni di tutto il mondo, e come le minacce che fino ad allora arrivavano a suo padre, poi tocchino a lei, poco più che bambina. Leggiamo che cosa vuol dire aver paura di uscire di casa; ma uscire lo stesso. Fino a quel 9 ottobre 2012, quando la preoccupazione delle scolare sull’autobus, reduci da una mattinata di esami, non è certo quella di trovarsi faccia a faccia con un terrorista che ha un’arma spianata, e che chiede: «Chi è Malala». E spara.
Ma lei ancora riesce a scherzare, ricordando che la nonna lo diceva sempre: «Sembra Benazir Bhutto, speriamo che non muoia così giovane», esclamava, vedendola in televisione a portare avanti la sua battaglia in favore dell’istruzione. E Malala incanterà il pubblico, anni dopo il tremendo attentato (e il ricovero, le operazioni all’orbita perforata dal proiettile, e la convalescenza), proprio pronunciando un accorato discorso alle Nazioni Unite, a New York, nel 2013, a sedici anni, portando addosso lo scialle che era appartenuto alla Bhutto.
Insegna anche un’altra cosa, questo libro. Insegna una pace vera, al di là di tutte le posizioni. Il nonno, racconta Malala, era stato colui che aveva tramandato nella famiglia «un profondo amore per l’apprendimento e per la conoscenza, insieme a un’acuta consapevolezza dei diritti e delle discriminazioni», spiega la ragazza, un amore per la cultura che attraverso le generazioni, dal padre insegnante, è passato alla ragazza. E il nonno era un imam, profondamente religioso come tutti gli Yousafzai. Quell’islam, che convive in armonia con le altre religioni come ad esempio il buddhismo, è l’altro sogno bellissimo del racconto di Malala.
E quando le scuole vengono chiuse dai talebani, è proprio in nome dell’islam che Malala si solleva: «Il Corano dice che dovremmo ricercare la conoscenza», scrive. E aggiunge che in quella terra sono tante le statue di Buddha, bellissime come può trovarle una bambina con gli occhi grandi, che non vede motivo di abbatterle. C’è una poesia che recita: «Quando la voce della verità risuona dai minareti / il Buddha sorride, e le catene spezzate della storia si riannodano»: l’ha scritta il suo baba , il papà di Malala, e insegna la pace. E come spiega lei stessa, soltanto perché è andata a scuola ora può leggerla.
 


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