La recente intervista della neo-ministra dell’Università Cristina Messa (Il Sole-24Ore del 18 marzo ’21) dice molte cose, forse troppe e in maniera cursoria. Ma due sono a mio avviso degne di nota. Innanzi tutto constatiamo come non ci si riesca a sottrarre a quello che è diventato una sorta di mantra dei cattivi pedagogisti: il richiamo alla necessità di «un adeguamento al bisogno di competenze dell’industria e dei ragazzi stessi […] perché tutti abbiamo l’interesse che aumentino queste competenze». Ovviamente non si parla qui di cultura, di preparazione, di qualità della conoscenza, di suo approfondimento e adeguata trasmissione. No, solo di “competenze”, come fosse questa la parola magica che risolve tutte le questioni, la bacchetta che, oplà, un colpetto e trasforma il rospo dell’attuale Università nella fata Turchina voluta dal Mercato. Ovvio, nessuna riflessione s’è fatta e si fa su cosa significhi implementare le “competenze” e quali siano i prerequisiti che esse richiedono, sui quali ho cercato di attirare l’attenzione in due miei precedenti articoli (leggi qui e qui). Non ripeterò quanto detto, ma mi limito ad osservare in merito alle competenze che dovrebbero essere fornite dall’Università – al servizio dell’industria e del mercato, e che altro ovviamente? – che è una funesta illusione di questi teorici delle competenze e dei pedagogisti confindustriali pensare che l’Università possa mai fornire – con i suoi corsi di laurea triennali e magistrali – tutte le competenze necessarie ad una società complessa e in continuo cambiamento. Inseguire questo sistema cangiante e multiforme nelle sue richieste di professionalità e competenze finirebbe per polverizzare la formazione universitaria in una miriade di corsi, sottocorsi, moduli e modulicchi che farebbero perdere ogni seria configurazione disciplinare alla sua missione formativa. L’Università non è fatta per questo, ma per fornire solide e approfondite conoscenze di base per ampi settori disciplinari e cognitivi, sui quali poi innestare le necessarie competenze. Anche perché queste ultime possono essere acquisite veramente – e basti leggere la letteratura scientifica ed epistemologica esistente, da me menzionata negli articoli prima citati, per rendersene conto – solo in stretta connessione a una pratica operativa condotta in seno agli ambiti nei quali esse dovrebbero venire esercitate, e non “a tavolino”. Sono esse quelle che in letteratura si definiscono “expertise” e concernono il cosiddetto “know how”, non la conoscenza in quanto tale. Ma non ripeto qui quanto già detto. Resta, come sempre, la sconsolante impressione che le “competenze” siano solo un modo – seguito non si sa con quanta consapevolezza – per introdurre nella produzione della conoscenza patologie che derivano da esigenze che con essa non hanno nulla a che vedere. E qui veniamo al secondo punto: l’idea dei “dottorati industriali” (per non parlare delle “lauree flessibili”, ancora un oggetto misterioso). Anche in questo caso può valere l’obiezione prima fatta sulla innumerevole quantità di loro tipologie necessarie per inseguire tutti gli anfratti industriali esistenti e sempre nascenti. Non solo, ma non si capisce in cosa questi possano esattamente consistere, viste le difficoltà da molti incontrate per implementarli, anche negli indirizzi più tecnici. A meno che non vengano surrettiziamente pensati come la possibilità di avere – in certi ambiti aziendali – giovani che per tre anni lavorano per un tozzo di pane, con la carota del riconoscimento di un “dottorato di ricerca” e il miraggio di un futuro inserimento nel mondo del lavoro. Invece di pensare a questa inutile complicazione, perché non si utilizzano a tal proposito gli strumenti già esistenti, cioè i master? Questi – come avviene nella pratica americana (una volta tanto!) – sono stati originariamente concepiti appunto in funzione della loro natura professionalizzante, per immettere nel mondo del lavoro e non della ricerca. Come ho già sostenuto a suo tempo (Master e professioni. Alla ricerca dell’anello mancante), una adeguata rimodulazione (non sconvolgimento) del loro assetto normativo permetterebbe di disporre di uno strumento capace di una flessibilità maggiore rispetto al dottorato; corsi facili da strutturare e ristrutturare di anno in anno e da condurre in partnership tra Università e aziende (o settori professionali), con un adeguato training operativo. Ciò permetterebbe di lasciare ai dottorati la loro funzione prevalente, quella di preparare alla ricerca scientifica, di cui tanto si parla ma per la quale così poco si fa; e senza mortificarne la qualità e mortificare le ricerche di base e fondamentali. A meno che – e qui siamo maliziosi – non si voglia sottrarre di mano agli accademici (che attualmente gestiscono in esclusiva i dottorati) tale prestigioso marchio DOP, in modo da nobilitare con esso più terrene pratiche, gestibili da interessi che con la ricerca (almeno quella di base) hanno poco a che fare. Insomma, piuttosto che sognare cose impossibili e inseguire parole d’ordine di cui non si riesce ad apprezzare appieno lo spessore epistemologico, perché non si cerca di operare su quanto già esistente, migliorandolo ove necessario? Di fronte all’inerzia degli ultimi tempi, sarebbe già qualcosa.
Innanzi tutto constatiamo come non ci si riesca a sottrarre a quello che è diventato una sorta di mantra dei cattivi pedagogisti: il richiamo alla necessità di "un adeguamento al bisogno di competenze "
Francesco Coniglione
La recente intervista della neo-ministra dell’Università Cristina Messa (Il Sole-24Ore del 18 marzo ’21) dice molte cose, forse troppe e in maniera cursoria. Ma due sono a mio avviso degne di nota.
Innanzi tutto constatiamo come non ci si riesca a sottrarre a quello che è diventato una sorta di mantra dei cattivi pedagogisti: il richiamo alla necessità di «un adeguamento al bisogno di competenze dell’industria e dei ragazzi stessi […] perché tutti abbiamo l’interesse che aumentino queste competenze». Ovviamente non si parla qui di cultura, di preparazione, di qualità della conoscenza, di suo approfondimento e adeguata trasmissione. No, solo di “competenze”, come fosse questa la parola magica che risolve tutte le questioni, la bacchetta che, oplà, un colpetto e trasforma il rospo dell’attuale Università nella fata Turchina voluta dal Mercato.
Ovvio, nessuna riflessione s’è fatta e si fa su cosa significhi implementare le “competenze” e quali siano i prerequisiti che esse richiedono, sui quali ho cercato di attirare l’attenzione in due miei precedenti articoli (leggi qui e qui). Non ripeterò quanto detto, ma mi limito ad osservare in merito alle competenze che dovrebbero essere fornite dall’Università – al servizio dell’industria e del mercato, e che altro ovviamente? – che è una funesta illusione di questi teorici delle competenze e dei pedagogisti confindustriali pensare che l’Università possa mai fornire – con i suoi corsi di laurea triennali e magistrali – tutte le competenze necessarie ad una società complessa e in continuo cambiamento. Inseguire questo sistema cangiante e multiforme nelle sue richieste di professionalità e competenze finirebbe per polverizzare la formazione universitaria in una miriade di corsi, sottocorsi, moduli e modulicchi che farebbero perdere ogni seria configurazione disciplinare alla sua missione formativa. L’Università non è fatta per questo, ma per fornire solide e approfondite conoscenze di base per ampi settori disciplinari e cognitivi, sui quali poi innestare le necessarie competenze. Anche perché queste ultime possono essere acquisite veramente – e basti leggere la letteratura scientifica ed epistemologica esistente, da me menzionata negli articoli prima citati, per rendersene conto – solo in stretta connessione a una pratica operativa condotta in seno agli ambiti nei quali esse dovrebbero venire esercitate, e non “a tavolino”. Sono esse quelle che in letteratura si definiscono “expertise” e concernono il cosiddetto “know how”, non la conoscenza in quanto tale. Ma non ripeto qui quanto già detto. Resta, come sempre, la sconsolante impressione che le “competenze” siano solo un modo – seguito non si sa con quanta consapevolezza – per introdurre nella produzione della conoscenza patologie che derivano da esigenze che con essa non hanno nulla a che vedere.
E qui veniamo al secondo punto: l’idea dei “dottorati industriali” (per non parlare delle “lauree flessibili”, ancora un oggetto misterioso). Anche in questo caso può valere l’obiezione prima fatta sulla innumerevole quantità di loro tipologie necessarie per inseguire tutti gli anfratti industriali esistenti e sempre nascenti. Non solo, ma non si capisce in cosa questi possano esattamente consistere, viste le difficoltà da molti incontrate per implementarli, anche negli indirizzi più tecnici. A meno che non vengano surrettiziamente pensati come la possibilità di avere – in certi ambiti aziendali – giovani che per tre anni lavorano per un tozzo di pane, con la carota del riconoscimento di un “dottorato di ricerca” e il miraggio di un futuro inserimento nel mondo del lavoro. Invece di pensare a questa inutile complicazione, perché non si utilizzano a tal proposito gli strumenti già esistenti, cioè i master? Questi – come avviene nella pratica americana (una volta tanto!) – sono stati originariamente concepiti appunto in funzione della loro natura professionalizzante, per immettere nel mondo del lavoro e non della ricerca. Come ho già sostenuto a suo tempo (Master e professioni. Alla ricerca dell’anello mancante), una adeguata rimodulazione (non sconvolgimento) del loro assetto normativo permetterebbe di disporre di uno strumento capace di una flessibilità maggiore rispetto al dottorato; corsi facili da strutturare e ristrutturare di anno in anno e da condurre in partnership tra Università e aziende (o settori professionali), con un adeguato training operativo. Ciò permetterebbe di lasciare ai dottorati la loro funzione prevalente, quella di preparare alla ricerca scientifica, di cui tanto si parla ma per la quale così poco si fa; e senza mortificarne la qualità e mortificare le ricerche di base e fondamentali. A meno che – e qui siamo maliziosi – non si voglia sottrarre di mano agli accademici (che attualmente gestiscono in esclusiva i dottorati) tale prestigioso marchio DOP, in modo da nobilitare con esso più terrene pratiche, gestibili da interessi che con la ricerca (almeno quella di base) hanno poco a che fare.
Insomma, piuttosto che sognare cose impossibili e inseguire parole d’ordine di cui non si riesce ad apprezzare appieno lo spessore epistemologico, perché non si cerca di operare su quanto già esistente, migliorandolo ove necessario? Di fronte all’inerzia degli ultimi tempi, sarebbe già qualcosa.