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Il ministro dell’ Università Manfredi: «Tutti in aula a febbraio»

Il ministro Manfredi e le critiche per la didattica solo online: «Da settembre avremo formule miste, con lezioni a distanza possibili per stranieri e fuorisede. A 4 studenti su 5 piace la soluzione su pc, così già un milione di esami. E si lavora a un software che scopra chi copia»

13/06/2020
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Corriere della sera

Gianna Fregonara

Ministro Gaetano Manfredi, lei è ingegnere, professore universitario ed ex rettore: ha mai tenuto lezioni online? «Sì, ed è molto più difficile che svolgere una lezione in aula. Erano altri tempi, oggi ci sono piattaforme che permettono l’interazione con gli studenti, ma allora non poterli vedere, non poter usare il linguaggio del corpo, non avere un riscontro dell’interesse per me furono elementi molto negativi. Certo quello che è successo in questi mesi di emergenza ci deve far riflettere su come si può gestire e innovare la didattica anche imparando dall’esperienza digitale: abbiamo superato la barriera psicologica e le università hanno risposto molto bene».

Lei è soddisfatto, ma gli studenti chiedono di tornare in aula a settembre.
«Dal nostro monitoraggio risulta che ci sono stati picchi di un milione e duecentomila studenti al giorno che hanno seguito le lezioni a distanza: addirittura per alcuni corsi è stata superiore la frequenza online che quella in presenza. Si sono laureati 70 mila studenti ed è stato fatto un milione di esami: si tratta di cifre comparabili con lo stesso trimestre dell’anno scorso».

Un esame online vale come un esame in presenza: cioè come si fa a capire che gli studenti siano davvero preparati e non copino?
«Per gli esami orali è più semplice: c’è un rapporto diretto docente-studente e un bravo professore si accorge anche in un’aula virtuale se i ragazzi sono preparati o no. Per gli scritti l’organizzazione è più complicata: si possono usare software per controllare il comportamento della persona durante l’esame. L’uso di questi strumenti però pone problemi di privacy che andranno regolati».

Come funzionano?
«Sono software che prendono per così dire “possesso” del computer su cui si svolge l’esame. Capiscono dalle pause e da altri segnali se lo studente sta copiando».

Non è stato questo l’unico problema legato alla didattica.
«Problemi ci sono stati, certo. Soprattutto per quegli studenti che vivono in zone dove non c’è la banda larga. Stimiamo che circa il 15 per cento degli iscritti non abbia potuto seguire con la qualità necessaria le attività. Abbiamo chiesto agli atenei di proporre attività di sostegno, mi sembra che lo stiano facendo. Comunque per questo trimestre tutte le scadenze sono state allungate per evitare che i ritardi possano danneggiare la carriera: l’anno accademico invece di finire in primavera finisce il 15 giugno, lunedì prossimo».

Ma in autunno, dalle prime anticipazioni, non si tornerà in aula. Perché?
«Dall’autunno, in quella che chiamiamo la fase 3 e che durerà fino al 31 gennaio, ci saranno formule di didattica mista con lezioni parzialmente in aula ma non per tutti. I fuorisede, chi ha difficoltà a raggiungere l’ateneo, gli stranieri potranno seguire le lezioni a distanza».

Ed evitare che le università siano troppo affollate: perché lo spazio non basterà più. La Statale di Milano per esempio farà solo attività e laboratori.
«Certo, le Università dovranno far accedere gli studenti a rotazione. Ma il gradimento degli studenti per le lezioni online è molto alto: da quello che è risultato dal nostro monitoraggio quattro su cinque sono stati soddisfatti. Tornare nell’università è fondamentale, l’interazione nelle aule il fulcro della vita universitaria: andranno per il momento garantite sia lezioni in presenza che lezioni per chi non torna. Poi speriamo che a fine gennaio, al termine della prima parte dell’anno, si possa far tornare tutti in aula. Intanto dopo l’estate lauree e esami saranno in presenza, anzi in alcune università lo sono già da adesso».

Per ora solo La Sapienza e Palermo hanno ripreso con gli esami. Le altre università hanno aperto solo i laboratori e le biblioteche. I laureandi di Medicina a Milano si sono presi un secco no dal rettore quando hanno chiesto di fare l’esame in Ateneo.
«C’è ancora molta preoccupazione per la sicurezza e per le condizioni sanitarie. Un terzo degli studenti italiani sono fuorisede, farli tornare tutti forse sarebbe ancora pericoloso. Per questo la formula della didattica mista può garantire qualità e presenza senza rischi: nel decreto legge Rilancio abbiamo messo 60 milioni di euro di finanziamento per le infrastrutture digitali che le università potranno usare subito».

Nelle università c’è allarme per le iscrizioni dell’anno prossimo.
«Ancora non si può dire che cosa succederà: le stime si basano sull’ultima crisi, quella del 2008, quando perdemmo il 20 per cento degli studenti. Oggi, alla luce anche della partecipazione alle attività di orientamento degli atenei e di un’analisi più approfondita dei dati, ci aspettiamo un calo del 10 per cento».

Peccato, perché l’Italia è già fanalino di coda europeo per numero di studenti e di laureati. Secondo gli impegni che avevamo preso in Europa avrebbero dovuto essere il 40 per cento, non siamo neppure al 30. «Quest’anno per la prima volta siamo tornati ai livelli di iscrizioni di prima del 2008. Mi accontenterei di non arretrare di nuovo. Per questo abbiamo messo alcuni interventi importanti nel decreto Rilancio, ma non basta. Credo che il Recovery Fund debba servire anche per poter avere più studenti nell’educazione terziaria, permettendoci inoltre di riorganizzare l’offerta formativa aumentando l’importanza degli Istituti tecnici superiori (Its) e delle lauree professionalizzanti».

Its e lauree professionalizzanti coinvolgono poco più di 10 mila studenti, una goccia nel mare.
«È un’offerta che va riorganizzata. Come credo che dovremo riorganizzare quella tradizionale in generale, che va integrata con competenze ambientali e digitali. A settembre presenterò anche il Piano nazionale per la Ricerca, che comprenderà anche un capitolo sulla ricerca post Covid-19». Intanto forse bisognerebbe aumentare le borse di studio e diminuire le tasse per gli studenti. «Lo stiamo facendo: da quest’anno la no tax area passerà da 13 a 20 mila euro e ci sarà uno sconto significativo delle tasse...».

Quanto significativo?
«Fino al 50 per cento per i redditi fino a 30 mila euro. Abbiamo investito 165 milioni per questo e per fare in modo che le università possano anche intercettare coloro che sono stati colpiti dalla crisi e debbano essere anche solo temporaneamente sostenuti».

Cioè famiglie che avevano redditi più alti e che quest’anno non ce la fanno?
«Esatto. Magari il loro Isee (l’indicatore del proprio reddito; ndr) era superiore alla no tax area ma da febbraio non hanno più avuto reddito. Basterà un’autocertificazione per avere diritto allo sconto che sarà gestito direttamente dagli atenei».

Avete stanziato in tutto un miliardo e mezzo aggiuntivo per Università e Ricerca ma sembra che questi fondi non siano poi usabili per vincoli e lacciuoli burocratici legati ai bilanci degli atenei che hanno tetti di spesa molto precisi.
«Abbiamo sospeso i vincoli per il fabbisogno di cassa e per le innovazioni tecnologiche. Se necessario farò altri interventi». L’emergenza Covid-19 ha dimostrato che in Italia serve più sanità, servono più medici. «Andrà fatta una riflessione anche su che tipo di sanità avremo e di che medici avremo bisogno. Quest’anno le borse di specializzazione sono 14 mila, 5 mila in più dell’anno scorso. Ma dobbiamo anche essere in grado di tenerli in Italia, i medici che formiamo».


È un discorso che vale per i laureati in generale.
«Il nostro è uno dei Paesi in cui il titolo di studio viene meno valorizzato e i migliori, nel mercato globale, se ne vanno. Bisogna essere più competitivi con gli stipendi: un nuovo patto sociale dovrebbe comprendere anche questo aspetto, cioè che le competenze vanno pagate meglio».


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