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Se ci va bene, demoliscono lo Stato sociale

L’iniziativa del governo sulla devolution e la riforma del titolo V della Costituzione è preoccupante e avviene nel quasi totale disinteresse dell’opinione pubblica

18/04/2003
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(Rassegna sindacale n.15, aprile 2003)
di Paolo Nerozzi
Segretario nazionale Cgil

L’iniziativa del governo sulla devolution e la riforma del titolo V della Costituzione è preoccupante e avviene nel quasi totale disinteresse dell’opinione pubblica. Certo su questo ha il suo peso la contemporaneità del conflitto in Iraq. Ma non deve essere solo questo, visto che c’è sottovalutazione anche da parte dei partiti, se si esclude la preoccupazione delle Regioni e del sistema delle autonomie, compresa quella che viene espressa da alcuni amministratori del centrodestra.
Quello che sta avvenendo viene liquidato come una manovra per prendere più voti alle prossime elezioni amministrative ma così non è. Il disegno è organico e ha un suo senso.
Quando il centrosinistra fece a fine legislatura la sua riforma del titolo V della Costituzione, noi come Cgil avanzammo un’osservazione di metodo, sul fatto che le riforme istituzionali non si fanno a maggioranza, più alcune osservazioni di merito, su temi per noi importanti come il lavoro, la scuola, la previdenza. Poi ci fu il referendum confermativo e noi, pur con le nostre osservazioni, invitammo a votare sì. Il popolo italiano convalidò la riforma ma il governo di centrodestra, pur presentando un disegno di legge attuativo, quello del ministro La Loggia, ha poi preso tempo facendo passare più di un anno. Se il governo se l’è presa così comoda, creando confusione sulle competenze e incertezza nelle risorse per tutto il sistema delle autonomie locali e delle Regioni, non è stato per caso. La strategia che c’è dietro, confermata oggi dall’unificazione tra quel disegno di legge e la devolution, è quella di un disegno che porta allo smantellamento dello Stato sociale. Sia nel caso che la riforma venga approvata in tempi rapidi: a quel punto le materie che riguardano lo Stato sociale sarebbero di competenza esclusivamente regionale e il risultato sarebbe quello, sciagurato, di venti sistemi diversi, uno per regione, sia per quanto riguarda la scuola che per la sanità.
Ma l’obiettivo potrebbe venire raggiunto anche se contrasti interni alla maggioranza portassero a perdere ancora tempo, perché in quel caso la confusione e la mancanza di risorse ridurrebbero Regioni e autonomie locali all’impotenza e porterebbero quindi alla fine di fatto del sistema di welfare così come l’abbiamo conosciuto. Certo, va apprezzato il fatto che le materie relative al lavoro siano state riportate, come noi avevamo richiesto, nell’alveo di una competenza legislativa nazionale, ma questo non può farci sottovalutare i danni che questa doppia riforma, se non fermata, porterà con sé. Sul terreno della distruzione di un sistema eguale di protezioni nel paese, infatti, si unifica l’«ala dura» della coalizione, quella rappresentata da Bossi e da Tremonti, con quella più «dialogante», rappresentata dall’Udc,che è comunque interessata a uno Stato sociale «non laico» e «non universale», in cui acquisti sempre più peso la gestione da parte del «privato sociale».
L’insieme della manovra porta con sé anche un altro pericolo, assai grave, che nasce da alcune norme che semplificano il meccanismo di costruzione di nuove Regioni e immettono il principio di secessione attraverso referendum non solo per quanto riguarda le attuali Regioni (vedi il caso di Emilia e Romagna) ma anche per quanto riguarda l’assetto nazionale. Su questo pericolo è stato lanciato un grido d’allarme da Vasco Errani, presidente della Regione Emilia-Romagna.
Se va bene, insomma, demoliscono lo Stato sociale. Se va male, inizia un processo di scissione e di divisione del paese, sempre presente del resto nelle idee e nelle opere di Bossi (il cui annuncio di non votare la riforma se non ci sarà quell’ineffabile sciocchezza delle vicecapitali, quello sì, è tutto in chiave elettorale).
C’è poi un altro rischio, gravido di conseguenze altrettanto pericolose. L’inefficienza e l’impossibilità di produrre sensibili miglioramenti nei processi di riforma, per via dell’incertezza su risorse e competenze ad autonomie locali e Regioni. Questo potrebbe produrre un caos amministrativo e legislativo e un aumento di costi che potrebbero portare a un processo rapido di riforma dello Stato: nell’idea di Tremonti e di una parte di An, infatti, la devolution si accompagna all’elezione diretta del presidente della Repubblica (e che questo sia uno dei possibili esiti di questa fase lo testimonia anche la scomparsa dall’agenda del governo del tema della Camera delle Regioni). Un processo che verrebbe facilitato e reso quasi obbligato dalla dissoluzione amministrativa ed economica e quindi dall’incapacità dell’attuale sistema di gestire in modo efficace partite essenziali per la vita e il benessere di tutti.
Viene alla mente l’analisi di Bernstein e dei suoi allievi. Che, esaminando l’esperienza della Repubblica di Weimar, sottolinearono come, accanto alla crisi sociale, dal punto di vista istituzionale tre furono le cose che portarono alla fine traumatica di quel periodo: l’elezione diretta del presidente della Repubblica senza controllo da parte del Parlamento; un potere eccessivo dei laender in tema di sicurezza, scuola e sanità; l’uso eccessivo dei referendum. (E fu da una critica della stessa realtà che Carl Schmitt partì per teorizzare lo Stato autoritario).
La situazione di oggi non va drammatizzata ma non va neppure sottovalutata. Queste derive esistono e sono pericolose. Ma esistono gli anticorpi e si sta facendo strada, seppur gradualmente, la consapevolezza della necessità di una risposta adeguata. La Cgil, che per tempo ha denunciato questo rischio, deve rilanciare oggi con coerenza le sue posizioni, insieme a Cisl e Uil, e sostenere con determinazione l’alleanza con Regioni e autonomie locali, appoggiando le battaglie che queste sostengono e sosterranno per un federalismo solidale, per un federalismo definito nei compiti e nelle competenze.

Roma, 18 aprile 2003

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