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New global, previsioni del tempo

Pubblichiamo un articolo apparso sul quotidiano "Il Manifesto" del 12 agosto 2003

13/08/2003
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Pubblichiamo un articolo apparso sul quotidiano "Il Manifesto" del 12 agosto 2003

Roma, 13 agosto 2003

New global, previsioni del tempo
Alla vigilia dell'incontro di Cancun e di un autunno già fitto di iniziative, un sentiero di lettura sulle
diverse proposte politiche del movimento dei movimenti
Futuro in agenda Saggi e documenti dai quali emergono le differenze ma anche la r
icchezza delle proposte della globalizzazione dal basso
MARIO PIANTA
FEDERICO SILVA

Chi pensasse che l'attivismo dei movimenti globali sia un'altra vittima del caldo estivo esprimerebbe un giudizio affrettato. L'autunno è già fitto di iniziative, come le proteste globali contro il vertice dell'Organizzazione mondiale per il commercio a Cancun in Messico a settembre, la nuova edizione dell'Assemblea dell'Onu dei popoli e della marcia Perugia-Assisi a ottobre, il Forum sociale europeo di Parigi a novembre. Sotto l'ombrellone è allora opportuno ripassare l'essenziale sui movimenti globali in un agile libretto, I new global. Che cosa sono e cosa vogliono i critici della globalizzazione, di Donatella della Porta (il Mulino, collana «Farsi un'idea», 135 pp., 8 euro) che ne mette a fuoco con rigore l'identita e le proposte. Un movimento sociale nasce quando quando emergono «reti di interazioni prevalentemente informali, basate su credenze condivise e solidarietà, che si mobilitano su tematiche conflittuali attraverso un uso frequenti di varie forme di protesta». Lo sforzo di Donatella della Porta, che sintetizza un vasto lavoro di ricerca su questi temi, è quello di verificare in che misura i movimenti sulla globalizzazione esprimono davvero identità e obiettivi «globali», si mobilitano con modalità adeguate a cause di rilievo planetario e agiscono con campagne e forme di organizzazione transnazionali. A ciascuno di questi temi è dedicato un capitolo del libro, che unisce una forte concettualizzazione (assai utile nel dibattito italiano) radicata nella teoria politica e sociologica e una puntuale descrizione delle attività dei movimenti globali.

Le diverse componenti di questi movimenti sono ritratte legando in modo sistematico identità e soggettività da un lato e forme e contenuti delle mobilitazioni dall'altro. C'è naturalmente molta attenzione alle proteste contro il G8 di Genova del luglio 2001, che erano state analizzate nel precedente lavoro del gruppo di ricerca raccolto intorno a Donatella della Porta (Global, no global, new global, Laterza 2002), e si esaminano le interazioni con le istituzioni e ai rapporti dei movimenti con la politica. La conclusione è che siamo davvero di fronte a movimenti globali che mettono in discussione elementi chiave della politica e pongono in termini nuovi - globali, certo, ma anche partecipativi e deliberativi - la questione della democrazia.

Alle identità del movimento è dedicato un altro libro uscito di recente, Altri mondi. Storie, personaggi, idee del movimento new global (Marco Tropea editore, 190 pp., 8 euro) scritto da Mario Portanova, giornalista di «Diario», che intreccia percorsi individuali, reportages sugli eventi chiave del movimento e temi delle mobilitazioni (un libro di cui il manifesto ha già parlato il 20 giugno con una recensione di Angelo Mastrandrea).

Per prendere in esame le proposte dei movimenti globali bisogna passare a un testo inglese, Another World is possible (Zed Books) curato da William Fisher e Thomas Ponniah, che è forse il primo tentativo di raccogliere le diverse proposte politiche del movimento dei movimenti. Lo fa a partire dalla pletora di documenti, formali e non, dalla serie di proposte e resoconti emersi da quelle fucine politiche che sono stati i World Social Forum di Porto Alegre. Quattro sono le principali aree tematiche in cui il materiale è organizzato: economia, ambiente e sostenibilità, democrazia, pace e diritti umani. il quadro che ne risulta è la nota ricchezza e pluralità del movimento ma anche le sue importanti differenze.

Due cruciali dicotomie attraversano l'intero spettro delle proposte. Primo, la nota divisione tra radicali versus riformisti (con l'aggiunta dei toni intermedi di coloro che chiedono «riforme radicali»). Il nocciolo é se la parola d'ordine sia lo shrink, il ridimensionamento del sistema di Bretton Woods, attraverso riforme che aprano alla partecipazione di spezzoni della società civile; oppure il sink, l'affossamento dei diversi poteri globali o quantomeno un loro sostanziale decentramento e localizzazione all'interno d'una Onu finalmente riformata. E' una scelta che ha un forte rilievo per la strategia dei movimenti: fare lobbying per portare a casa risultati, magari piccoli, o mettere il sistema in condizioni di fare meno danni senza pensare da subito ad alternative praticabili? Il grado di autonomia dei movimenti, gli spazi per costruire alternative e l'entità del lavoro di partnership con le grandi istituzioni internazionali rimangono questioni aperte nei vari documenti del libro.

La seconda dicotomia è quella tra localisti e globalizzatori. I primi chiedono una forte svolta verso la localizzazione (A turn towards localization è il sottotitolo di The Case Against the Global Economy, Earthscan, curato da E. Goldsmith e J. Mander, che contiene scritti anche di Martin Khor e Walden Bello). La tesi è che la soluzione dei problemi economici e ambientali non passa attraverso un ordine internazionale monolitico e gerarchico bensì tramite il ritorno di processi e decisioni a una scala locale (e nazionale), con l'auto-organizzazione, l'economia solidale, l'auto-sufficienza locale, la sovranità alimentare e il controllo diretto delle risorse.

I globalizzatori sono invece impegnati a trovare soluzioni di democrazia internazionale con forme più o meno articolate di global governance, ripartendo dalla democratizzazione delle Nazioni Unite, nella convinzione che la risposta alla globalizzazione sia soprattutto la sua democratizzazione. E ci sono infine le spinte per un ritorno di attenzione alla dimensione degli stati nazionali, con richieste di maggiore autonomia e di una rinnovata sovranità nazionale.

Su questa varietà di temi non mancano le contraddizioni. Sovranità nazionale non ha mai significato autonomia locale, né democrazia a livello sovranazionale ed interstatale. La richiesta di un'economia di pieno impiego dettata dai diritti dei lavoratori contrasta con la necessità ambientale di una drastica riduzione dei consumi e della crescita economica. Infine, come sottolineano i curatori, l'enfasi sulla diversità culturale ma il contemporaneo accento su diritti universali propri del linguaggio occidentale, sottende le note tensioni tra globalismo e localismo, tra universalismo e comunitarismo, tra eccessi in derive liberali o etnocentriche.

Al di là di tali tensioni e differenze, nei documenti si ritrova una soglia minima importante di obiettivi politici e sociali attorno ai quali l'eterogeneità del movimento si è coagulata. La riforma delle istituzioni economiche internazionali, l'annullamento del debito dei paesi poveri, la sospensione, dei programmi di aggiustamento strutturale, sistemi di tassazione globale - sulle transazioni finanziarie, sugli investimenti diretti all'estero, sui profitti delle multinazionali - una rete di monitoraggio e tutela dei diritti umani, sociali e economici sono obiettivi prioritari comuni a tutto il movimento. Un'importante convergenza propositiva emerge ben al di là delle critiche alla globalizzazione neoliberista.

L'eterogeneità, ma anche la ricchezza di queste dinamiche sociali emerge dal nuovo libro di Mary Kaldor Global Civil Society (Polity Press). Adottando un punto di vista teorico e storico, il libro analizza la genesi del concetto di società civile globale. L'autrice riconosce non solo l'ambiguità del termine, ma anche i suoi recenti abusi. L'uso di società civile è stato spesso permeato dall'ipocrisia nelle politiche e nei documenti dei grandi organismi internazionali; ma riveste anche valore del tutto particolare nella letteratura neoliberista - come rammendo alle mancanze del laissez faire dello stato minimo. Tuttavia, Kaldor, conscia della forza descrittiva e normativa che il termine ha assunto nei nuovi movimenti e delle sue importanti radici storiche, lo difende. La definizione del termine adottata, e tratteggiata in parte sull'uso kantiano e gramsciano, riflette la percezione che gli attivisti hanno di sé e il lato normativo del loro progetto politico: società civile globale come cittadinanza attiva, radicalizzazione democratica, empowerment degli spazi di partecipazione politica e profonda critica al militarismo. Il tutto in uno spazio politico che si colloca tra la sfera dello stato e quella del mercato, in una dimensione globale.

Muovendo dalla sua storia politica che l'ha vista tra i fondatori dell'End (il movimento europeo per il disarmo nucleare), Mary Kaldor rintraccia le radici di tale definizione nei movimenti per la pace degli anni Ottanta. Quell'attivismo europeo contro i missili Cruise e Pershing e Ss20 è stato doppiamente cruciale. Primo, come scavalcamento delle barriere poste dalla allora situazione geopolitica promuovendo nuovi legami tra est e ovest dell'Europa e dando così prima forma al loro carattere trasnazionale. Secondo, come confronto politico attraverso i primi controvertici con istituzioni sovranazionali - favorendo così istanze di controllo democratico e partecipazione attiva.

Tuttavia, l'adozione del termine società civile globale non significa a detta dell'autrice minimizzare né la diversità né il pluralismo, riducendo i movimenti ad un corpo monolitico. Anzi, Mary Kaldor riconosce all'interno di esso almeno tre categorie differenti, a volte parzialmente sovrapposte: Ong, movimenti sociali e quei network globali che spesso tentano di fungere da tramite tra le altre due forme di organizzazione. Questa partizione sebbene riguardi certamente strutture, repertori d'azione e competenze, è anche differenza nelle proposte avanzate e nel modo di avere rapporti con la sfera politica dei partiti e delle istituzioni sovranazionali. All'auto-organizzazione sovente spontanea dei nuovi movimenti sociali pronti al confronto/scontro politico ed istituzionale sui grandi temi corrispondono le strutture formali di alcune grandi Ong internazionali, la loro specializzazione di nicchia ed il loro ruolo privilegiato di interlocutori. Ma la strategia di lobbying, come ricorda l'autrice, rischia di portare all'«addomesticamento», a strutture istituzionalizzate e verticistiche prive di mordente: che a protesta e proposta possa sostituirsi la mera «fornitura di servizi»; alla solidarietà il beneficio interessato, all'auto-organizzazione la professionalizzazione.

C'è poi la divaricazione tra soggetti sociali del Nord e del Sud del mondo, con un forte squilibrio di risorse e rischi d'egemonia culturale. Sebbene tali pericoli che possono apparire fratture siano ben presenti, è sulla base di un'identità di fondo, che collima con la richiesta di forme di democrazia radicale, che l'autrice riconosce la potenziale forza politica del movimento. Il rinnovato militarismo statunitense seguito all'11 Settembre 2001, con le guerre in Afghanistan e Iraq ha fatto sì che la pace tornasse a essere un tema centrale dell'agenda dei movimenti globali, e un elemento di unificazione. La fiducia espressa nel sottotitolo, nella società civile come risposta alla guerra, cioè come capace di influenzare la politica di sicurezza e di riprendere controllo democratico delle decisioni globali, ha trovato un riscontro importante nelle manifestazioni mondiali del 15 febbraio 2003 contro i preparativi di guerra degli Stati Uniti contro l'Iraq, la data di nascita - a detta del New York Times - della società civile globale come «seconda superpotenza».