La parola, non il silenzio. L'impegno della scuola contro la violenza di genere
Articolo di Dario Missaglia, presidente nazionale Proteo Fare Sapere.
Per martedì 21 novembre il Ministro Valditara ha annunciato un minuto di silenzio per ricordare Giulia, l’ultima vittima del femminicidio.
Un gesto di vicinanza, di solidarietà? Certo, ma per la scuola, e non solo, non basta. È proprio il silenzio che bisogna rompere.
Bisogna trovare le parole per iniziare ad abbattere un muro di insensibilità, di passivo adattamento, di rassegnazione.
Una mattinata a scuola, trascorsa a discutere su questa tragedia oramai insopportabile, sulla condizione dei giovani, sui rapporti tra i sessi, sarebbe assai più rilevante e profondo di un minuto di silenzio.
Non esistono scorciatoie alla individuazione delle tante responsabilità in gioco e delle azioni che di conseguenza andrebbero avviate al più presto. Non vorrei che l’ennesima proposta di legge rivolta alla scuola o l’immancabile progetto ministeriale che si annuncia, diventassero l’espediente più o meno involontario per mettere in pace la coscienza fino al prossimo triste episodio.
Certo che la scuola deve fare la sua parte, a cominciare dalla denuncia esplicita di ciò che dalla scuola si osserva con chiarezza. Il rapporto tra insegnanti e genitori è ai minimi storici e l’attuale Ministro insegue una politica per rafforzare tale estraneità. Rincorre una falsa tutela dei docenti come se tutti i genitori fossero nemici da cui guardarsi. Invece di fare della crisi del rapporto tra scuola e genitori un elemento centrale per rilanciare nella scuola il dialogo, la collaborazione, per capire e affrontare il disagio giovanile, per la ricerca delle intese utili per dare senso educativo all’esperienza scolastica, si alimenta irresponsabilmente la conflittualità e l’estraneità. Ma nella società attuale, se i genitori vengono allontanati dalla scuola, precipitano solo in un individualismo fatale per la loro funzione educativa. Genitori si diventa soprattutto, e mai come in questa fase della storia, proprio a scuola, discutendo insieme con gli insegnanti su come educare i figli che crescono, concordando regole e comportamenti. A 50 anni dalla nascita dei decreti delegati il Ministro avrebbe un’occasione d’oro per rilanciare partecipazione e dialogo nella scuola. E soprattutto per aprire una discussione franca sulla crisi della funzione educativa dei genitori, oggi.
Genitori spesso eterni adolescenti, amicissimi dei propri figli, incapaci di dire un no, pronti ad assecondare ogni desiderio e richiesta dei figli. Non è una deriva sorprendente. Se l’obiettivo del modello sociale in cui siamo immersi è il consumo a ogni costo, bisogna essere spensierati, sempre giovani, amanti soprattutto di se stessi; e infatti difendono se stessi e non i loro figli quando, di fronte a un meritato richiamo o rimprovero di un docente, reagiscono con violenza in apparenza incomprensibile.
Recuperare la centralità della relazione educativa, del dialogo e confronto tra scuola e genitori, è la prima forte sollecitazione che bisognerebbe radicare nella scuola per costruire una comunità che educa. Sarebbe sufficiente dare segnali chiari in questa direzione ed evitare le contraddizioni più clamorose: punire i ragazzi difficili, declamare solo il merito dei più bravi, sanzionare “condotte” anziché aprire confronti, parlare solo di voti di “profitto” anziché di cura e motivazione all’apprendimento, vendere per autorevolezza della scuola un’idea elitaria dell’insegnamento.
Gli adulti, genitori e insegnanti, debbono tutti riflettere sul concetto di autorità che è condizione indispensabile nel processo educativo, senza cadere nella trappola del richiamo alla scuola “seria”, cioè selettiva. Nodo complesso e delicato ma inevitabile, salvo rinunciare alla funzione educativa, con tutto ciò che ne consegue.
È del tutto evidente che con queste figure di adulti, i giovani manifestino tutti i segni della loro fragilità: non hanno modelli di riferimento, non hanno desideri perché materialmente non manca loro nulla, non hanno vissuto il conflitto con il padre che non li ha messi di fronte anche alla rinuncia, al dolore, al sacrificio del proprio egoismo. Si sentono onnipotenti e crollano al primo insuccesso nella vita o cancellano una vita che non risponda ai loro desideri. Dentro questo narcisismo assoluto non c’è spazio per le emozioni, i sentimenti, per il rispetto dell’altro. Uccidere, non lascia tracce.
La potenza dei vecchi miti della società patriarcale è crollata sotto la potenza di un modello sociale predatorio e cinico che semina immaturità e insensibilità incurante degli effetti sociali. Bisognerà pur riflettere sul fatto che la maggior parte degli autori dei femminicidi siano giovani tra i 18 e 35 anni. Per questo si pone con urgenza la necessità di una mobilitazione della cultura, della scienza, della formazione per supportare i docenti a sostenere un impegno formativo inedito sull’educazione alla differenza che non può essere lasciato alle improvvisazioni non disinteressate di tanti attori che si mostrano sul web.
Questo modello neoliberista che produce ricchezza e potere per potenti lobby è oggi difeso a oltranza da questo governo con ampio dispiegamento di mezzi; per questo l’impegno educativo che testardamente dobbiamo riproporre, non può essere separato da una testimonianza quotidiana di critica e dura contestazione politica e culturale nella società contro tutto ciò che tende a giustificare e riprodurre un modello che semina diseguaglianze, disinveste sulla formazione e la conoscenza, mina alla radice i sentimenti di solidarietà e collaborazione, mette al centro le logiche di mercato e non la persona.
È contro questa deriva che dobbiamo alimentare una nuova battaglia culturale ed educativa. Per il futuro e la vita dei giovani.
La pietà per le vittime, che avvertiamo profonda, non basta.
Il silenzio neppure.