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Paolo Serreri, docente della terza Università di Roma, esordisce ricordando il carattere soprattutto indiretto dell’azione di Di Vittorio e della Cgil sull’istruzione: il 900 è stato il secolo della scolarizzazione di massa, ma in Italia questa sarebbe stata più lenta e diversa se non ci fosse stato il sindacato.

In secondo luogo Serreri pone l’attenzione sul carattere di “educatore degli adulti” di Di Vittorio. E non a caso l’educazione degli adulti nasce da una rivendicazione del movimento operaio. E, senza saperlo, Di Vittorio pone al centro un aspetto metodologico: l’apprendimento più che l’insegnamento e l’autoapprendimento soprattutto.

Di Vittorio si considerava un evaso dall’analfabetismo: dal vecchio analfabetismo. E il nuovo? Si chiede Serreri. Questo costituisce la sfida nuova.

E da alcuni dati. In Italia innanzitutto ci sono ancora due milioni di vecchi analfabeti (collocati oltre i 45 anni di età).

Poi ci sono i nuovi analfabeti che sanno leggere e scrivere ma hanno scarse competenze nell’uso di ciò che leggono. In Italia questi ammontano al 65%. E’ un dato allarmante perché queste persone hanno più difficoltà di occupazione, di migliorarsi in formazione continua, di essere cittadini attivi e di accedere al governo diffuso della vita nazionale. Anzi, dice Serreri, rischiano di essere decisamente esclusi da tutto ciò.

Oggi quindi, conclude Serreri, è ancora all’ordine del giorno l’obiettivo di Di Vittorio: superare la iniqua distribuzione sociale del sapere. Con una differenza: che ai suoi tempi era una questione di diritto e di etica, oggi è anche una questione di sviluppo: perché la cultura di un popolo è un fattore decisivo per esso. In altre parole sviluppo e coesione, che sono i due obiettivi di Lisbona 2000, devono andare insieme non solo per ragioni etiche ma anche perché separati non funzionano.

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