Vocazione subalterna. Contenti loro…
di Benedetto Vertecchi
Dovessi dire qual è, a mio parere, l’aspetto della cultura educativa italiana (forse non solo di quella educativa) che mi lascia più perplesso, direi che è la vocazione alla subalternità. È una vocazione che si esprime in molti modi, ma che rivela in ogni caso la rinuncia o l’incapacità di analizzare la realtà educativa e il modo in cui si è venuta manifestando, di elaborare ipotesi circa lo sviluppo desiderabile e di far corrispondere le scelte a una rappresentazione non asfittica delle condizioni di esistenza nel medio e nel lungo periodo. Non che tale angustia costituisca un fenomeno solo italiano, perché la si ritrova ampiamente rappresentata nel dibattito internazionale, ma non condivido l’opinione che un mal comune sia un mezzo gaudio. Anzi, il fatto che linee interpretative che finora non hanno mostrato di essere capaci di avviare processi virtuosi siano riproposte con enfasi, anche da parte di organizzazioni internazionali, mi sembra un argomento per riflettere criticamente sul significato della conclamata necessità di internazionalizzare i criteri e le pratiche dell’educazione. L’impressione è che l’internazionalizzazione abbia ben poco a che fare con l’uscita dagli orti chiusi delle culture locali al fine di allargare gli orizzonti di esperienza sui quali si fonda l’educazione, mentre abbia molto a che fare con l’affermazione di un utilitarismo definito secondo i criteri imposti da quella sorta di cupola costituita dal potere economico globalizzato. È un utilitarismo che si presenta come realistico e sollecito del destino degli individui, perché fa prevalente riferimento all’esigenza di consentire un più agevole inserimento dei giovani nelle attività produttive. Il limite di questo argomento è la sua parzialità, che ne rivela il carattere ideologico: si tratta, infatti, di giustificare scelte che, nei fatti, sono molto meno sensibili di quanto si dichiari alle condizioni di esistenza degli individui. L’espediente ideologico è rappresentato dalla soppressione del tempo nell’argomentazione: in altre parole, è anche possibile che una certa proposta educativa corrisponda nel tempo breve all’acquisizione di un profilo desiderabile per l’inserimento in attività produttive, ma è del tutto improbabile che tale profilo continui ad esserlo in tempi più distesi. Semmai, ciò poteva essere vero in altre fasi storiche, nelle quali i ritmi dello sviluppo erano molto più lenti. Poteva accadere che l’attività intrapresa nella prima parte della vita seguitasse a essere svolta nelle età successive, nello stesso modo in cui era stata iniziata o con modesti scostamenti. Oggi la validità nel tempo delle competenze finali, quelle che possono essere impiegate per il lavoro, si riduce rapidamente, per i cambiamenti resi necessari dalle trasformazioni che investono le attività produttive: profili professionali apprezzati fino a non molti anni hanno subito mutamenti profondi o sono stati del tutto abbandonati. Le nuove attività, che nel frattempo si sono affermate, conoscono una fase iniziale di rapida espansione, alla quale segue un accomodamento seguito da un declino. Chi svolge tali attività è del tutto esposto ai contraccolpi delle modifiche che investono il suo settore di competenza se non è in grado di ridefinire il proprio profilo perché continui ad essere apprezzato. In breve, si può trovare lavoro facendo riferimento alle competenze finali possedute, ma è sempre più improbabile che si sia in grado di conservarlo se non si dispone di risorse conoscitive che consentano di modificare, anche sostanzialmente, i tratti del proprio profilo professionale. Si potrebbero aggiungere altre considerazioni, e soprattutto si potrebbe notare la contraddizione che oppone due linee evolutive divergenti: da un lato la validità delle competenze finali possedute ha una durata sempre più breve (la tendenza è particolarmente evidente nei settori tecnologici), dall’altro si è avuto un forte incremento nella durata della speranza di vita delle popolazioni dei paesi industrializzati. Troppe persone vedono dissolversi il valore delle competenze di cui dispongono senza avere la possibilità di sostituire un nuovo profilo quello già posseduto. La lunga vita che attende queste persone rischia di essere sempre più estranea ai cambiamenti che interessano le condizioni di esistenza. È un paradosso che si pretenda di qualificare come una forma di modernizzazione il trasferimento attraverso l’educazione formale di un corredo di conoscenze e abilità che possa essere subito utilizzato nell’ambito di un rapporto di lavoro. Ed è un paradosso che si vuol rendere credibile attraverso un’opera di convinzione che ricorre a tutti gli espedienti propri delle tecniche di mercato. Sono giovani sorridenti, ben vestiti e soddisfatti quelli che invitano altri giovani a seguire il loro esempio. Ma se non ci si accontenta delle immagini edulcorate che si vedono nelle locandine o nei manifesti ci vuole poco a rendersi conto che la felicità esibita corrisponde a redditi di poche centinaia di euro mensili, che non c’è sicurezza per il futuro, né che si intravedono opportunità di miglioramento. In breve, la sostituzione di interpretazioni prioritariamente educative con proposte subalterne ad altri interessi ha avuto finora il solo evidente effetto di accentuare la loro dipendenza dal potere economico. Il controllo da parte di quest’ultimo dei mezzi di comunicazione sociale ha concorso in modo determinante ad affermare una pseudocultura dell’educazione centrata su un senso comune riproduttivo: basti pensare a ciò che si afferma a proposito del merito, della concorrenza, del successo, dell’impegno degli allievi, della capacità professionale degli insegnanti, dell’organizzazione delle scuole per rendersi conto che l’educazione è stata ridotta a espressione marginale di un sistema di valori del quale la coltivazione di se stessi, la comprensione della realtà sociale, la conoscenza disinteressata, il pensiero, le arti, la solidarietà verso gli altri, in breve tutto ciò che nel tempo e nello spazio ha concorso a definire un’idea di cultura e di civiltà, costituiscono un’appendice costosa, che serve, nei caso migliori, a creare immagine. La vocazione subalterna che tanti sedicenti modernizzatori esprimono quando si ingegnano di apparire allineati con i criteri della neo-pedagogia di derivazione aziendale si esprime proprio tramite la rincorsa di un’immagine che in nessun modo si è concorso a delineare, ma della quale si imitano i tratti marginali, nel modo di vivere, negli usi linguistici, nei consumi, nei rapporti interpersonali.