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Vincere il degrado senza abolirsi

di MArio Ambel

28/06/2016
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Insegnare

Mercoledì 22, al mattino del primo giorno della Maturità (sarebbero gli “Esami di Stato” ma da sempre, sui quotidiani, prevale la denominazione emozional-autobiografica), se qualche solerte ascoltatore si fosse sintonizzato su Radio Tre avrebbe potuto ascoltare la lettura di due interessanti articoli sulla scuola.  A “Prima pagina”,  Marco Meazza, giornalista de Il Sole 24 Ore, ha letto un intervento di Andrea Gavosto da la Repubblica, mentre a “Pagina 3” Nicola Lagioia ha letto un articolo di Antonio Scurati da La Stampa.  Si  tratta di due articoli di estremo rilievo, anche perché, a pochi giorni dalla tornata elettorale, pongono alcuni nodi cruciali sul destino della scuola e sull'intreccio fra scuola e politica.

L'articolo di Scurati,  docente universitario, romanziere e saggista, è molto duro, intelligente e provocatorio. Assume la “scuola pubblica”  come esempio paradigmatico di periferia della contemporaneità, ovvero luogo di marginalizzazione e degrado, territorio abbandonato  a se stesso e alla propria impotenza e frustrazione. La scuola è in questa condizione, afferma Scurati, perché degli insegnanti, da anni “non frega niente a nessuno”. A scuola i docenti sono ormai l'espressione di opposte sconfitte: dei giovani come dei più anziani, gli uni e gli altri portatori di insuccessi complementari che vivono tra le pareti scrostate di un degrado non solo culturale ma anche fisico, reale.
La descrizione del degrado della "scuola pubblica" è forse più suggestiva che realistica, ma rivela profonde verità, mentre il severo giudizio sulla cosiddetta"Buona scuola" è totalmente condivisibile ed è stato in questo anno inutilmente  ribadito da più parti, alle quali i media avrebbero fatto bene a dar maggior credito, non solo ora, in concomitanza con una sconfitta elettorale del partito che la sta realizzando. A questo stato di cose, infatti, afferma Scurati, la politica non sa dare risposte, se non la pseudo-riforma renziana, frutto di “una cattiva politica ridotta ai propri slogan”, con l'aggravante di una sinistra che non sa più guardare ai problemi reali anche perché abbacinata dal luccichio elitario dei Master Chef o delle scuole d'eccellenza per aspiranti romanzieri.

Diverso il contenuto dell’articolo di Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli.
Gavosto prende spunto dalla discussione in atto sulla valutazione e sull'esame di maturità, per rilanciare una proposta di cui egli stesso e la Fondazione che dirige si sono fatti da tempo promotori: ridiscutere profondamente l'Esame di Stato. Andrebbe abolito o sostituito da "prove comuni  a  tutti e correzione unificata", argomenta Gavosto, perché non dice nulla sulle reali competenze degli allievi in uscita dalla scuola secondaria di II grado,  viene condotto e valutato con criteri di eclatante disparità fra Nord e Sud, le Università non gli danno alcun credito e in buona sostanza non serve a nulla.
Il che è in gran parte vero, ma, a mio modo di vedere, il problema non è tanto l’esame ma quello che si fa prima e il rapporto che si stabilisce fra le reali attività di insegnamento/ apprendimento e le modalità di verifica conclusiva della loro efficacia. All'origine di questo fraintendimento c'è un'ambiguità che Gavosto ben conosce e che  viene ostinatamente elusa facendo una gran confusione di strumenti e di finalità: un conto, infatti, è valutare gli esiti di un corso scolastico in funzione di quello che si è realmente fatto, altro è verificare il livello di competenza raggiunto in alcuni campi di sapere e di esperienza indipendentemente da quello che si è fatto e dove e come, altro ancora certificare un pacchetto di competenze trasversali utili al cittadino indipendentemente da ciò che farà in futuro...
Di certo la credibilità e la spendibilità (o se volete il valore legale) del titolo di studio o delle certificazioni conclusive impongono parametrazioni comuni e attendibili.  Potrebbero essere il risultato di tipologie diverse di valutazioni che possono anche coesistere (ma non nello stesso contesto, né possono far media!), purché si sappia essere più chiari e conseguenti sulle scelte di sistema che vengono effettuate. E purché le scelte delle modalità valutative siano corenti e conseguenti con le scelte progettuali e l'idea di scuola praticata. E non giungano invece, alla fine, a stravolgerne o pretendere di condizionarne il senso a ritroso.
Questo è il nodo didattico, culturale e sociale che pone l’Esame di Stato, così come la coesistenza e l'incompatibilità fra pagella con voti, certificazione delle competenze e prove Invalsi poste pavidamente alla fine della secondaria di primo  grado da un Paese incapace di innalzare con chiarezza l’obbligo scolastico per l'ostinata sudditanza alla fascinazione (e agli interessi) della canalizzazione precoce di alcuni nella formazione professionale regionale o nei suoi ibridi con l’istruzione professionale statale.

Due articoli differenti, dunque, ma c’è  un filo conduttore comune che, a mio modo di vedere, alimenta le condizioni che provocano nei due testi la constatazione del fallimento della scuola, seppure osservato da e con prospettive assai diverse. Così com’è comune la circostanza di essere stati  scritti e pubblicati all’indomani della sconfitta elettorale di quella che fu, e non è più da tempo, la sinistra storica del Paese.
Provo a esplicitarlo in modo il più possibile estraneo al tanto odiato didattichese (o pedagogismo, secondo la terminologia di altri detrattori). La scuola è un sistema complesso ma le variabili fondamentali di cui si alimenta la sua complessità sono relativamente semplici: nella scuola interagiscono infatti
​- allievi che dovrebbero apprendere;
- docenti che dovrebbero insegnare;
-  dimensioni dell'agire competente in campi diversi di sapere e di esperienza conoscitiva  che dovrebbe valer la pena di  insegnare e apprendere;
- ambienti e modalità con cui far sì che ciò avvenga per il maggior numero di persone e con risultati il più possibile soddisfacenti.
Orbene. Da più di vent'anni - in nome di un parossismo valutativo di natura fortemente demagogica - non ci si preoccupa minimante di migliorare il che cosa e soprattutto il come valga la pena essere insegnato e appreso, mentre ci si appassiona in modo abnorme e a tratti maniacale su come valutare ciò che nessuno ha insegnato e, se possibile, anche su come valutare coloro a cui nessuno ha più detto da tempo con coerenza che cosa e come dovrebbero insegnare, né certamente sono stati preparati adeguatamente a farlo…

 L'intera “Buona scuola”, ha perfettamente ragione Scurati, si disinteressa totalmente di che  cosa valga la pena insegnare (e visti i presupposti ideologici da cui muove, diciamo pure: per fortuna!), per concentrarsi su come valutare tutti i protagonisti di processi che avvengono ormai in forte stato confusionale. E tanto impegno sulla valutazione non è neppure in grado di produrre soluzioni adeguate, se, come ricorda Gavosto, da anni si discute delle prove Invalsi, e se debbano star dentro o fuori dagli esami conclusivi, o ancora se gli Esami di Stato appaiono ormai del tutto anacronistici e un po’ farlocchi, per non parlare dei danni irreversibili che politiche scriteriate di valutazione stanno già producendo nella scuola di base.
La ricerca e la formazione hanno dovuto cedere il passo alla valutazione, che è diventata chiave di volta e parametro progettuale di ogni azione della e sulla scuola; i processi di insegnamento/ apprendimento e lo studio sulla loro qualità hanno lasciato il campo a una miriade di frantumati progetti cui ora, in un’apoteosi di caos autodistruttivo, si dovrebbero persino collegare le politiche del personale; la scuola si prepara ad autodissolversi in un proliferare di occasioni per essere altro da sé, in nome della blaterata (e tanto mediatica) certezza che da sola non basta e anzi più si apre all’esterno e meglio è.

Ma per chiudere da dove si è partiti, quello che manca, da decenni, in questo Paese è una convergenza di idee e di forze (anche politiche) realmente progressiste, che sappiano e possano esprimere e governare una coerente e organica proposta di scuola per il terzo millennio. E che sia capace di fronteggiare, poiché c’è e agisce,  una visione opposta o diversa. Quello a cui assistiamo, invece, è uno sterile e pasticciato incaponirsi in un mélange di pseudo ideali di risulta e di compromesso (meritocrazia, individualismo, efficientismo, modernizzazione, rottura generazionale) che produce piccoli mostriciattoli su temi di forte appeal mediatico: la valutazione dei risultati e dei docenti;  il rapporto con il mondo del lavoro; la soluzione del precariato; il rinnovamento tecnologico e metodologico.
Così facendo ci si rifiuta di affrontare il vero nodo, ovvero come creare le condizioni perché la scuola possa studiare e sperimentare che cosa e soprattutto come insegnare (la famosa "autonomia di ricerca e sperimentazione", cui avrebbe dovuto servire l'organico funzionale, non per inseguire progettini triennali di rapporto con il territorio o le imprese!) o ci si illude di risolverlo in qualche panacea postmoderna in cui sublimare la contrapposizione fra tensioni opposte. Fra fautori della sudditanza della scuola al mondo esterno (economico e valoriale) e la difesa a oltranza di un neoumanesimo che ha di sacrosanto la rivendicazione del ruolo critico della cultura e dell’educazione, ma che talvolta si compiace di apparire come antagonista pregiudiziale nei confronti della modernità; fra chi vorrebbe ammantare di presunta  e velleitaria misurabilità oggettiva ogni variabile dei processi di apprendimento e delle istanze educative e chi conosce gli inganni non della osservazione anche autocritica del proprio agire, ma della parametrazione comparativa e competitiva dei soggetti e dei contesti; fra chi privilegia la salvaguardia del riconoscimento e della valorizzazione del merito dei "migliori" (siano essi docenti o allievi) e chi sa bene che - fuori da una logica inclusiva di crescita seppur relativa e necessariamente contestuale di tutti e di ciascuno - ogni rivendicazione individuale è un arbitrio che le contraddizioni della società occidentale non possono più permettersi, pena il pedaggio del perpetuarsi di insostenibili diseguaglianze. E delle relative reazioni.

È l’incapacità di una scelta coerente e costruttiva fra queste posizioni che da anni impedisce al sistema scolastico italiano di fare un salto di qualità e alimenta da un lato le periferie del degrado che crescono dentro ciascuno di noi e nell’intero sistema e dall’altro la percezione che i grandi e piccoli riti nei quali  la scuola si è da sempre riconosciuta siano da abolire perché non più riformabili. Forse come la scuola stessa. O il Paese di cui è sempre più diventata specchio, anziché contesto di interpretazione critica e rinnovamento.
C'è una sola strada per provare a uscire dalle periferie degradanti in cui siamo precipitati: smetterla di preoccuparci di valutare i risultati e le persone e ricominciare a preoccuparsi di che cosa e come insegnare per migliorarne gradualmente l’essere e l’agire. Magari riusciremo anche a reinventare un esame finale decente, senza bisogno di abolirlo. O a ridurre il degrado, ambientale e culturale, in cui precipita - spesso suo malgrado - la scuola pubblica.


​Note

1. L'articolo si Andrea Gavosto, "Perché cambiare l'esame di maturità", è reperibile sul sito della Fondazione Agnelli.
2. L'articolo di Antonio Scurati, "Nuove periferie crescono in mezzo a noi", è reperibile sul sito de La Stampa.
3. Sul rapporto fra scuola e degrado urbano, vedi su insegnare l'articolo di Andrea Morniroli, "Fare scuola nelle periferie".


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