Viesti: l’Università «oligarchica» non serve. Servono più laureati
Servono più docenti per migliorare le performance degli Atenei. Ma il merito non si può misurare in base alla ricchezza dei territori
Gianfranco Viesti*
*Professore di Economia, Università di Bari
Si sta sviluppando un’interessante discussione sulle azioni del Piano di Rilancio per università e ricerca. Opportuna. C’è il rischio che il Piano preveda interventi straordinari ma senza incidere sull’attività ordinaria; peggio, come paventato dalla Senatrice Elena Cattaneo, che crei «feudi dorati», concentrando la maggior parte delle risorse verso chi «si autoproclama eccellente». Discussione cruciale. Che va condotta partendo dagli aspetti più importanti. I modestissimi livelli italiani di istruzione terziaria sono, semplicemente, incompatibili con l’economia contemporanea; riducono le opportunità di mobilità sociale e di partecipazione alla vita collettiva. La percentuale di giovani (25-34 anni) laureati è in Italia meno del 28%, 11 punti inferiore alla media comunitaria; in Lombardia è la metà delle regioni di Londra e Parigi; in Sicilia (sotto il 20%) minore di tutte le regioni europee, escluse alcune aree rurali rumene. Per un’Italia migliore servono più studenti, più laureati.
Bene fa il PNRR a prevedere risorse (ma che dovrebbero essere ben più cospicue) per le borse di studio. E per l’esenzione dalla tassazione per le famiglie meno abbienti; tassazione che sarebbe bene ridurre drasticamente, dato che è divenuta in Italia ben più alta di tutti i paesi dell’Ue (esclusa l’Olanda), e si sono creati forti incentivi – che andrebbero cancellati – per gli Atenei per accrescerle: chi incassa di più può reclutare più docenti. Per più studenti occorrono più docenti: che invece in Italia sono fortemente diminuiti (e invecchiati), peggiorando il rapporto studenti/docenti, già maggiore che nel resto d’Europa. Fra il 2008 e il 2018 si sono chiuse le porte dell’università ad una intera generazione di studiosi, spingendoli all’estero o costringendoli in posizioni precarie più sopportabili solo da quelli di «buona famiglia»; negli ultimi anni si è provato a invertire la tendenza, ma in misura del tutto insufficiente. Essendo i docenti la parte largamente maggioritaria dei costi delle università, questo porta al tema dei temi: il nostro paese ha (2018) un investimento pubblico nell’università di poco più di 7 miliardi (più o meno lo stesso, in valori nominali, del 2010), contro i 25 della Francia (+10%, 2010-18) e i 31 della Germania (+38%; dati European University Association).
Uno scarto abissale, sul quale la versione disponibile del PNRR non sembra intervenire. Ci vorrebbe una «union sacrée» su un’agenda semplice: molta più università, per molti più ragazzi e ragazze (e adulti) italiani. In tutto il Paese. Contrariamente a quanto si sente ancora ripetere, il numero di università in Italia è minore che in tutti gli altri Paesi europei (anche tenendo conto della differenza dei sistemi nazionali; si veda Whed). E’ ben articolato territorialmente. Ed è benissimo che sia così: perché le università svolgono un ruolo fondamentale per lo sviluppo regionale: sia perché consentono una frequenza molto maggiore, anche a quanti non sono in grado di migrare; sia perché interagiscono profondamente con il sistema culturale in senso lato (con la cosiddetta terza missione), sia con il sistema economico (con le fondamentali attività di ricerca collaborativa e di trasferimento, specie se tarate su realtà e bisogni locali) dei territori. Cosa ancora più importante nelle regioni più deboli: nelle cui università dovrebbe essere favorita l’assegnazione e la circolazione di docenti; e non penalizzata, come avviene in Italia grazie ad indicatori per cui il «merito» corrisponde alla ricchezza dei territori.
A riguardo, occorrerà massima chiarezza sui «campioni territoriali di ricerca» ipotizzati dal PNRR. Concentrare fortemente i finanziamenti ordinari su poche realtà di eccellenza, come taluni propongono, (e quindi riducendola per le altre, magari fino a chiudere alcune sedi) rappresenta un indirizzo profondamente errato. Per i motivi appena detti. Ma non solo. Perché le fondamentali attività di collaborazione fra studiosi non richiedono necessariamente la compresenza permanente. Perché per potenziare la ricerca vanno messi a gara finanziamenti aggiuntivi (e non distorti quelli del fondo di finanziamento ordinario!), da assegnare ai gruppi con i migliori progetti; preferibilmente basati su più sedi, come già accade per molti programmi europei. Quel che conta davvero è quel che si farà e si scoprirà, assai più che la «qualità della ricerca» passata, specie se misurata attraverso indicatori estremamente discutibili, costruiti anche dai diretti interessati, come si fa in Italia. Un influente articolo pubblicato nel 2017 su Research Policy mostrò che le pubblicazioni scientifiche del 2001 che hanno poi avuto maggiore impatto, non sarebbero state ritenute «eccellenti» guardando a criteri come la sede di pubblicazione o le citazioni nei primi anni.
Nella complessità delle norme tecniche, in fin dei conti quella universitaria è questione politica. In cui si contrappongono due visioni. Una «oligarchica»: poche sedi eccellenti con pochi, ben noti e autodefinitisi docenti eccellenti e per pochi studenti eccellenti. Una «democratica»; come suggerisce la senatrice Cattaneo: «strategie e programmi per rinforzare le capacità diffuse di ricerca in ogni ambito del sapere», favorendo «l’innovazione e lo sviluppo dei territori». E’ questa la scelta da compiere.