VALeS: se i numeri dicono qualcosa
di Antonio Valentino
Progetto VALeS: allargare la platea
Il progetto VALeS ha dunque avuto una buona accoglienza nelle nostre scuole. Le adesioni superano le 1000 unità (per la precisione, 1053): praticamente molto più di tre volte tanto il numero fissato dal Ministero per la sperimentazione.
Se si paragona questo dato con quello delle adesioni ai progetti della Gelmini - che per raggiunere la soglia prevista (tra l’altro modesta) è dovuta ricorrere a sotterfugi e a pressioni - ci si rende conto che forse c’è qualcosa di nuovo nel clima generale delle nostre scuole e che certe forzature ideologiche del precedente ministro (l’insistenza maniacale sulla cosiddetta premialità) non pagano.
Questo pone un problema che l’amministrazione farebbe bene a non sottovalutare: limitarsi, per esempio, a selezionare le 300 scuole, sulla base dei criteri stabiliti, e chiudere così la porta a tutte le altre scuole che hanno inoltrato domanda può forse essere interpretato come disattenzione nei confronti di quanti vogliono mettersi alla prova ed accettare la sfida del rinnovamento
Bisognerebbe forse pensare, se non si può ampliare il numero previsto per motivi finanziari, ad una qualche modalità per non spegnere la voglia di protagonismo delle scuole che resteranno fuori e favorire in ogni caso, attraverso riconoscimenti da studiare e supporti e coordinamenti da prevedere (a livello ragionale?), ricerche e sperimentazioni autonome delle scuole (per quanto ispirate al progetto ministeriale).
Andrebbe considerata ad esempio, la possibilità
1. di mettere a disposizione anche di chi è rimasto fuori la strumentazione e I protocolli predisposti,
2. di dar conto periodicamente (un paio di volte all’anno?) dell’andamento della sperimentazione a livello nazionale, per tener vivo l’interesse e favorire il confronto.
Penso che, in questa fase, vada incoraggiata e sostenuta ogni spinta al protagonismo delle scuole. Anche per contrastare così la situazione di immobilismo diffuso che si respira. La quale, se protratta ulteriormente, fa correre il rischio che vengano mortificate le tante energie che aspettano di essere “risvegliate”.
Comunque il dato interessante è il numero delle richieste, che sta a indicare come la valutazione esterna non sia più un tabu per molte scuole e che, al riguardo, c’è comunque attesa.
Penso che le adesioni siano ascrivibili soprattutto alla volontà di mettersi in gioco, di saper al meglio rispondere a bisogni e attese dei giovani – e forse anche del paese, a volerla pensare con un po’ di orgoglio professionale -, di darsi strumenti più raffinati e incisivi per capire di più e riprendere a sentirsi – e ad essere considerati - socialmente rilevanti.
Se questa ipotesi interpretativa corrisponde ad una percezione fondata, e se nessuna idea di premialità è all’orizzonte, perché considerata, in questa fase, controproducente e insensata, allora andrebbero meglio focalizzate le “finalità generali” del Progetto e quindi i risultati attesi della sperimentazione.
In primo piano: ricerca e sperimentazione finalizzata al miglioramento
E’ sufficientemente chiara e condivisibile – credo - la scelta dello strumento (che è anche un risultato atteso) del Rapporto di Valutazione: sia quello conseguente all’analisi iniziale della scuola, sia quello conclusivo, che dovrà dar conto dei cambiamenti in positivo, introdotti a seguito dell’elaborazione del Piano di miglioramento.
Quello che mi chiedo a questo punto è: che cosa deve riguardare (in cosa deve consistere) il miglioramento che ci si aspetta.
Ovviamente la misurazione degli apprendimenti (dove giocherà un ruolo fondamentale l’INVALSI) e le interviste e i questionari, a cura dei nuclei esterni, dovranno costituire azioni centrali nel percorso sperimentale.
Non penso però che vadano enfatizzate più di tanto. Scopriremmo l’acqua calda se il senso della ricerca fosse quello di capire se - quanto ad apprendimenti sensati e durevoli - siamo messi bene o male. Sappiamo, senza bisogno di grandi ricerche, che siamo, in genere, messi male. Meno male, in qualche caso, e, in qualche altro, benino.
Il problema è capire se c’è, tra chi nella scuola opera, consapevolezza adeguata del “che cosa c’è dietro” giudizi di questo tipo e cosa si fa per venirne fuori.
Nella mia esperienza di dirigente scolastico, il ritornello più frequente, di fronte a situazioni più o meno disperate, che mi arrivava, è che gli studenti “ imparano poco o niente perchè non studiano e non hanno voglia di studiare”. Solo in pochissimi casi sono indicate le responsabilità della scuola. I “veri politicizzati”, poi, preferiscono invece addossare la colpa al Ministero e alla politica. Si fa prima.
Se queste ovvie osservazioni hanno un minimo di fondamento, allora potrebbe aver più senso, nell’intera operazione, enfatizzare sia le strategie di ricerca e sperimentazione - che sono richiamte in più punti dei due documenti di presentazione del Progetto (quello ministeriale e quello del Dipartimento preposto) -, sia le azioni di sostegno da parte dei Nuclei, dell’INVALSI e dell’INDIRE.
Le prime, in quanto rimarcano il protagonismo delle scuole e valorizzano la spinta a mettersi in gioco che le ha indotte ad aderire al progetto; le seconde perché possono fare uscire le scuole dall’isolamento e spingerle a confrontarsi e tesaurizzare culture, strumenti e professionalità esperte, esterne alla scuola, in grado di prospettare, orientare e prefigurare percorsi opportuni e adeguati di auto-osservazione / valutazione e di miglioramento.
Un punto centrale: la responsabilità rispetto agli esiti
Dal lavoro dell’INVALSI ci si dovrebbe aspettare quindi un’attenzione particolare al “calcolo del valore aggiunto” – e relativa riflessione -. Non tanto perché è una novità, ma perché dovrebbe permettere – se ho capito bene – di valutare l’incidenza effettiva del fare - e dell’essere - scuola nello sviluppo degli apprendimenti (incidenza da apprezzare, come il progetto prevede, dopo che i punteggi degli allievi nelle prove INVALSI siano stati ‘depurati’ dai fattori di contesto socio-culturale).
Penso – voglio pensare – che questo “strumento” possa aiutare a mettere al centro dei piani di miglioramento interventi volti a farsi carico delle difficoltà di apprendimento e dei problemi che ci stanno dietro e a individuare le responsabilità non tanto nel “non studio” dei nostri studenti, quanto piuttosto (anche se non solo) in una visione dell’essere insegnanti e dell’essere scuola che tende a non considerare adeguatamente (e qualche volta a rifiggire da) le proprie responsabilità rispetto agli esiti. E questo perché cultura della valutazione e cultura dell’ orientamento al risultato di cui rispondere (semplificando, la rendicontazione), non hanno mai segnato in profondità il mondo della scuola (e non certo per responsabilità del suo personale; almeno non per responsabilità prevalente).
Questo, allora, l’auspicio, almeno per chi scrive: che i risultati attesi in questa ricerca-sperimentazione riguardino soprattutto questi aspetti della vita scolastiva (visione e cultura professionale di docenti e dirigenti). Vorrebbe dire che si è imboccata, probabilmente, una strada giusta.