Università: test di ingresso, la soluzione ci sarebbe ma nessuno la vuole
È tempo di test di ingresso alle facoltà scientifiche. I test sono mutati nel tempo e non sono più di cultura generale. Allora a che cosa servono?
Maria Sofia Rossi
Questa volta, vorrei parlare di un tema che potrebbe sembrare poco attinente con la scuola secondaria di secondo grado e con il liceo: i test d’ingresso all’università. Negli scorsi giorni si è tenuto quello più temuto, che dà accesso alla facoltà più ambita, medicina. E già qui, qualcosa non torna: veniamo martellati a ogni piè sospinto da notizie allarmanti sulle sorti della professione medica in Italia (mancano i medici e mancheranno sempre di più; il turnover non coprirà mai tutti i pensionamenti; alcune specializzazioni, come senologia, non racimolano un numero minimo di iscrizioni per garantire la copertura delle necessità della popolazione; i medici di base scarseggiano e spesso i vecchi dottori in pensione ritornano a esercitare come liberi professionisti), e poi solo uno su sei degli aspiranti medici verrà accettato nelle facoltà. E quindi?
Molti puntano il dito contro il test d’ingresso, che negli anni è mutato profondamente. Vent’anni fa, esso contemplava molte più domande di cultura generale, assecondando forse l’immagine “vecchio stile” per cui il medico doveva essere anche una persona di cultura; oggi, in ossequio probabilmente alla crescente tecnicizzazione della medicina, le domande di cultura generale sono molto ridotte numericamente, e prevalgono quelle di area biologica, chimica, logica. Certo, fa un po’ sorridere – per non dire piangere – la polemica, e il relativo panico, perché una delle domande di cultura generale non riguardava il Novecento come era stato garantito. Il quesito, invero assai difficile e per super-esperti, che ha gettato in crisi alcuni studenti era il seguente: quale di questi avvenimenti storici si è verificato nel corso della vita di Leonardo Da Vinci? a) Scoperta dell’America b) Rivoluzione francese c) Riccardo Cuor di Leone partecipa alla Terza Crociata d) Guerra dei Trent’Anni e) Morte di Dante Alighieri.
Davvero un arduo quesito, ne converrete, cui persino mio nonno, che aveva frequentato la sesta elementare, avrebbe dato risposta senza esitazione. E allora, come è possibile che brillanti studenti, in larga parte usciti da un liceo, non possiedano queste che sono le basi della cultura comune? Come è possibile che quella forma mentis irta di contenuti culturali che disegnano il profilo di un giovane cittadino consapevole della storia del suo Paese e dell’Europa delineato dalla Indicazioni nazionali sia poi così lontana dalla realtà di un ragazzo che, concluso il liceo (e proprio nell’anno del cinquecentenario della morte di Leonardo) non abbia idea dell’arco temporale in cui sia vissuto l’autore della Gioconda?
Sicuramente, avere frequentato un liceo scientifico o delle scienze applicate facilita il superamento del test, e tuttavia viene spontaneo chiedersi se il problema non stia a monte: ovvero, se i numeri del test non siano calibrati sulle reali esigenze presenti e future della popolazione italiana (tant’è vero che stiamo iniziando a importare medici, e il fenomeno sarà sempre in crescita), ma sulle disponibilità e le infrastrutture delle facoltà universitarie. Il che, in effetti, è anche corretto: se non ho laboratori, aule studio, aule sufficienti, come posso pensare di offrire agli studenti un servizio in grado di preparare professionisti completi ed efficienti?
Peccato che questo probo principio non valga per alcune facoltà umanistiche: quando una nota facoltà di una prestigiosa università lombarda ha tentato di selezionare gli studenti, anche in vista della garanzia di uno standard di qualità degli insegnamenti che garantissero un minimo di servizio alle matricole, le proteste hanno fatto sì che il test venisse dichiarato incostituzionale e lesivo del diritto allo studio.
Ovviamente, è chiaro che a medicina ogni studente abbia sacrosanto diritto a poter trovare un posto in laboratorio, e un banco a lezione; ma allora, perché non può passare il concetto, altrettanto lampante e socratico, che anche le facoltà umanistiche hanno una loro dignità e che è lesivo del diritto degli studenti fare lezione in aule sovraffollate, o addirittura in cinema e teatri, o non avere, per questioni numeriche, un posto in biblioteca o non poter essere adeguatamente seguiti dai docenti? Il rischio, inoltre, è quello di far passare il messaggio, nemmeno troppo subliminale, che esistono facoltà di serie A (quelle con il test d’ingresso, di taglio tecnico-scientifico) e facoltà di serie B (quelle senza test d’ingresso, di carattere umanistico, dove si entra tutti felicemente senza nessun tipo di prerequisito).
Perché non attuare anche in Italia lo stesso criterio attuato in altri Paesi europei? Ovvero, non regolare l’accesso alle facoltà universitarie tramite test d’ingresso, ma istituire uno sbarramento: chi entro una certa data non ha superato tutti gli esami del primo anno, o del primo biennio, non può proseguire gli studi in quella facoltà. Questo sarebbe forse il sistema più semplice, scevro da polemiche e ricorsi, ispirato all’idea di un sistema che si equilibra spontaneamente.