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Università, tanti corsi a rischio

Aumento obliquo delle tasse e blocco rigido del turnover: il decreto contiene due norme che possono infliggere duri colpi agli atenei

09/07/2012
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l'Unità

Stefano Semplici

I l decreto legge sulla revisione della spesa pubblica contiene senz’altro due buone notizie per l’università: il Fondo di finanziamento ordinario non è stato ulteriormente tagliato e sono stati restituiti 90 milioni a quello per borse di studio e prestiti d’onore. Nelle pieghe del provvedimento, oltre ai sacrifici in qualche caso pesantissimi che vengono invece chiesti agli altri istituti e centri di ricerca, si nascondono però anche due scelte che hanno già iniziato a suscitare polemiche. CONTRIBUZIONE Il governo ha deciso di consentire agli atenei un incremento potenzialmente consistente delle tasse universitarie e lo ha fatto usando non parole chiare e distinte, ma la via obliqua in troppi casi battuta dal legislatore italiano: non si tocca il limite del 20 per cento fissato per la «contribuzione studentesca» in rapporto al contributo statale e si cambiano invece il numeratore e il denominatore, togliendo al primo le tasse dei fuori corso e considerando per il secondo tutti i trasferimenti correnti, e non più il solo finanziamento ordinario. Aggiungendo che agli atenei che dovessero superare il nuovo limite sarà fatto obbligo di destinare le maggiori entrate al finanziamento di borse di studio. Anche alle università, ed è questo il secondo punto del decreto legge che lascia inevitabilmente perplessi, si applicano fino al 2016 meccanismi severissimi di limitazione del turn over, peraltro sostanzialmente bloccato già da alcuni anni. L’aumento delle tasse, specie se realizzato un po’ di soppiatto, è fatalmente destinato a risultare impopolare e pone immediatamente problemi di equità. Continuando ad impedire di assumere nuovi professori si condannano a morte corsi di laurea anche prestigiosi e molto frequentati, con l’aggravante del paradosso che le risorse lasciate al-le università risulterebbero utilizzabili per molti e certamente preziosi scopi, salvoquello che è evidentemente essenziale per la loro sopravvivenza. Nella proposta che avevo presentato due settimane fa al ministro Profumo insieme a tre colleghi c’era l’indicazione di un metodo diverso per garantire una migliore utilizzazione delle risorse e una reale condivisione di responsabilità, a vantaggio prima di tutto dei nostri giovani. L’idea, che applicavamo all’università ma che potrebbe ovviamente essere estesa ad altri ambiti, era quella di attivare un circuito virtuoso fra il rigore dei comportamenti e la disponibilità di maggiori mezzi per incrementare offerta formativa e servizi, oltre che far fronte agli interessi sul nostro debito. Insomma:per cercare davvero di tornare a crescere e non solo di continuare a scivolare verso il basso. I punti concreti che abbiamo indicato corrispondono esattamente alle due zone d’ombra di questo decreto legge. Abbiamo chiesto di finanziare il diritto allo studio non con le tasse degli studenti, ma con il gettito fiscale relativo ai contratti di locazione per i fuori sede, perché sia chiaro a tutti che onestà e equità quello che fa ciascuno di noi insieme alle decisioni di governo e Parlamento sono le premesse indispensabili per evitare che la crisi divori non il perimetro dello statalismo improduttivo, ma quello dei fondamentali diritti di cittadinanza. Abbiamo proposto di destinare una quota pari alla metà di tutte le riduzioni di spesa realizzate nelle singole università al reclutamento di nuovi docenti, oltre che al finanziamento di interventi di edilizia universitaria e al potenziamento di laboratori e biblioteche. Non la logica dei tagli lineari, dunque, ma quella dell’incentivo alla buona amministrazione e dell’attenzione alle reali esigenze e priorità, perché è ovvio che, con un turn over ridotto al 20%, un corso di laurea nel quale andranno in pensione 8 docenti su 20 nei prossimi tre anni non ha la possibilità di diventare più efficiente e virtuoso, ma solo quella di scomparire. Il governo ha varato un decreto legge. Questo significa che, se ci sono buona volontà e argomenti capaci di creare consenso, abbiamo due mesi di tempo per rimediare ad alcuni errori.


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