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Per università e ricerca diagnosi e cure sbagliate

L’aggravarsi della crisi dell’università italiana sembra davvero essere stato accelerato dalle diagnosi e dalle ricette pervicacemente proposte da alcuni economisti

12/03/2014
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ROARS

Patrizio Dimitri e Giuseppe De Nicolao 

John Kenneth Galbraith, grande critico del neoliberismo americano, sosteneva che nella storia gli economisti non siano mai stati capaci di prevedere una crisi, ma che, anzi, una volta scoppiata, abbiano sempre fornito ricette che contribuivano ad aggravarla.

L’aggravarsi della crisi dell’università italiana sembra davvero essere stato accelerato dalle diagnosi e dalle ricette pervicacemente proposte da alcuni economisti dell’università Bocconi. «Riversare più fondi in questo sistema è come buttarli al vento» scrivevano “profeticamente” Francesco Giavazzi e Alberto Alesina nel 2003.

Poco importa che i dati Ocse collochino l’Italia al trentesimo posto per spesa in educazione terziaria in rapporto al Pil. Dieci anni dopo, la missione è compiuta: il Fondo di finanziamento ordinario dell’università è diminuito del 20 per cento nel corso di soli quattro anni. Sempre Giavazzi, nel 2010 ammoniva «che nell’università ci siano troppi professori è un fatto», anche se l’Ocse mostra che l’Italia è ventunesima per rapporto docenti/studenti.

Detto fatto: grazie ai vincoli sul turnover, dal 2009 ad oggi il numero di docenti e ricercatori è calato del 13 per cento. Ancora Giavazzi sulla riforma Gelmini: «Va dato atto al ministro Gelmini di aver fatto un importante passo avanti. La legge riconosce che i corsi devono essere ridotti, le università snellite, alcune chiuse».

Ecco che, pur essendo ultimi in Europa come percentuale di laureati, invece di colmare il ritardo, applichiamo la ricetta Giavazzi. Risultato: gli immatricolati sono calati del 17 per cento rispetto a dieci anni fa, mentre negli ultimi cinque anni è stato chiuso più del 20 per cento dei corsi di studio.

Nello stesso solco si muove anche Tito Boeri, prorettore alla ricerca della Bocconi, che il 23 novembre scorso a  Porta a Porta ha denunciato la scarsa attrattività della ricerca in Italia, auspicando il finanziamento esclusivo dei cosiddetti centri d’eccellenza privati.

A supporto delle sue tesi, Boeri citava la recente VQR, la valutazione nazionale dei prodotti della ricerca,  osservando che  dall’analisi di 15.000 prodotti presentati, risulta che nel Cnr «abbiamo il 30 per cento di persone che sono inattive».

I dati reali, però, sono altri: non solo i prodotti valutati nella VQR sono 184.878, più di dieci volte maggiori, ma gli inattivi del Cnr non superano il 14per cento, come mostato puntualmente da Giorgio Sirilli sul blog Return on Academic Research. Tra l’altro, una parte dei ricercatori Cnr risulta inattiva perché non ha partecipato alla valutazione, per protestare contro uno Statuto imposto dalla Gelmini che nega la rappresentanza dei ricercatori negli organi di governo.

Un altro cavallo di battaglia dei terminator bocconiani è quello dei “cervelli in fuga”, i giovani di talento costretti a emigrare perché «l’università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale» (Roberto Perotti, 2008). Eppure, proprio la VQR citata da Boeri dimostra che i ricercatori italiani del settore pubblico sono più produttivi dei loro colleghi in Francia, Germania, Regno Unito, Australia e Giappone.

D’altronde, i “cervelli” che stanno tanto a cuore ai nostri opinion makers non nascono sotto i cavoli e nemmeno ce li consegna la cicogna, ma provengono soprattutto da quegli atenei e centri di ricerca pubblici, dipinti dai bocconiani come desolati e desertificati templi dell’ozio. Malgrado mille difficoltà, ci sono docenti e ricercatori armati di passione e dedizione, che hanno formato generazioni di giovani bravi, alcuni purtroppo costretti a migrare altrove. Ma di fronte alla drammatica contrazione di risorse economiche , strutture  e opportunità, frutto della “cura Giavazzi”, che altro avrebbero potuto fare?

Sarebbe ingenuo sostenere che università e ricerca  in Italia siano immuni ai mali che affliggono tutti i settori della nostra società, pervasa dalle più varie forme di conflitti di interesse, clientelismo e di familismo amorale. Ma merito e qualità non si instaurano strangolando l’intero sistema, con il rischio di creare un ritardo incolmabile rispetto alle altre nazioni. I tagli indiscriminati e gli interventi attuati negli ultimi anni dai vari governi e caldeggiati  dai terminator bocconiani, hanno penalizzato solo le componenti attive e vitali degli atenei e centri di ricerca, lasciando più o meno immune chi trae vantaggio dal fitto intreccio tra potere politico e accademico.

Per incentivare la ripresa del sistema universitario e della ricerca, occorrono trasparenza nei processi decisionali, meccanismi di valutazione scientificamente validati e una seria programmazione per investire risorse adeguate nella ricerca pubblica. Solo così sarà possibile trattenere i numerosi talenti che crescono proprio in quei dipartimenti e centri di ricerca criticati stremati da una raffica di interventi punitivi. Non a caso Renato Dulbecco, premio Nobel per la Medicina, nel 2008 denunciava che «Un paese che investe lo 0,9 per cento del proprio prodotto interno lordo in ricerca, contro la media del 2per cento degli altri, non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori».

Purtroppo, le “cure” somministrate finora  hanno prodotto un fallout che sta uccidendo il paziente. Infatti, il sistema quantitativo e automatico ideato dall’Anvur per la valutare ricerca e ricercatori, basato su indicatori bibliometrici, sta creando una meritocrazia alla rovescia. Non a caso, in Inghilterra, dove la valutazione è di casa, è esplicitamente escluso il ricorso ad automatismo bibliometrici per valutare qualità, autonomia scientifica e originalità di ricerca.

Che insieme ai cervelli in fuga non si sia involato anche il senno di chi sta condizionando pesantemente le politiche nazionali per l’università e la ricerca? Sarebbe ora di prendere atto dei danni causati da ricette perniciosamente distruttive. Ma quale cambiamento di rotta possiamo attenderci da chi alla Bocconi ha di recente organizzato  un convegno che, fin dal titolo , “La ricerca in Italia: cosa distruggere, come ricostruire”, lascia ben pochi dubbi?

da EuropaQuotidiano


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