Università: Le richieste di aiuto al Governo
Gli atenei sbagliano a piangersi addosso senza mai riflettere sui propri fallimenti
DI ALBERTO ABRUZZESE
Leggo in giro quello che alcuni universitari chiedono al ministro competente e al governo in carica: comprendere la centralità della ricerca e della formazione; foraggiare l'accesso dei giovani con soluzioni economiche, procedurali e organizzative adeguate; riequilibrare tale accesso in base a criteri di giustizia sociale; progettare un ricambio effettivo dei docenti uscenti per anzianità; sapere sfruttare i bacini universitari come motori di sviluppo urbano. Tutto giusto, ragionevole o almeno volenteroso. Ma non una parola sui dispositivi e contenuti che - in tali rappresentazioni della crisi passata, presente e ancor più futura delle nostre università - andrebbero considerati non solo come effetto dell'incuria e dell'isolamento in cui esse versano ma anche come causa di una irreparabile frattura storica e sociale tra spazio universitario e mondo. Non una parola sul proprio fallimento (il modello culturale accademico) invece che su quello altrui (le derive della politica).
Da parte mia, data la natura delle scienze della comunicazione di cui mi occupo, ho scritto ben tre lettere aperte: a Mussi, Gentiloni e infine Rutelli. Senza ricevere alcuna risposta. Spero di potermi spiegare questo silenzio dall'avermi essi confuso proprio con quel tipo di esternazioni. Nulla infatti di più micidiale di chi, parlando a nome dell'università, dialoga con i politici pretendendo da loro - dal loro ruolo - la soluzione dei problemi attuali del sistema di ricerca-formazione in Italia. Micidiale, naturalmente, quando la richiesta sia fatta partendo dal presupposto che la soluzione possa e anzi debba comunque venire da Stato o governo o impresa, senza mettere in discussione le proprie effettive capacità di formulare tale richiesta sulla base di sostanziali contenuti innovativi (e soprattutto portare qualche pregresso attestato di questa capacità).
Mettiamola così: un vecchio amministratore di beni fondiari è arrivato al fallimento e si rivolge al proprietario di tali beni, pretendendo che questi gli risolva d'un colpo il problema, investendo nuovi soldi, macchine e braccia su ciò che altrimenti andrebbe in sicura rovina. La richiesta non è priva di qualche ragione: infatti il proprietario - da cui, ormai più di mezzo secolo fa, detto amministratore aveva ricevuto in affidamento tali beni - ha indubbiamente compiuto buone dosi di superficialità e di costanti inadempimenti, fattosi ben presto sprovveduto se non scellerato, ma soprattutto senza progetto, cattivo investitore e, in ultimo, sempre più indebitato, vicino all'impotenza. Per il canuto amministratore è quindi comprensibile la pretesa di essere salvato dalla rovina, che ovviamente è rovina sua ma anche e più ancora del maldestro e persino un poco irresponsabile proprietario.
Tuttavia è molto più comprensibile che quest'ultimo, il padrone o magari il sovrano, abbia forti problemi ad affidare anche pochi spiccioli di tempo o soldi a un lamentoso questuante senza fantasia, ripetitivo, saccente e - capace di presentarsi in ogni dove nelle mentite spoglie di rampanti amministratorini d'assalto, cloni di se stesso - senza comunque avanzare un pensiero che vada oltre il problema della crisi della proprietà fondiaria di cui si è pasciuto, ingrassando di privilegi famigli incanutiti o aiuti di primo pelo, incapaci ma fedeli; schiavizzando schiere di braccianti e costringendoli ad abitare in condizioni disumane, coperto peraltro dall'omertà di tutti gli altri amministratori del suo rango (in quanto costretti, volenti o nolenti, a fare altrettanto). Lui si è adattato a tutto ciò, ma magari cercando che i suoi contadini sapessero zappare o pascolare. Altri di questo non hanno saputo e voluto occuparsi. Eccetera, eccetera.
Altra cosa sarebbe, invece, se un eretico pronipote di quel tirannico amministratore, riuscendo per miracolo a sfuggire al controllo della famiglia, potesse essere lui a far richieste di investimento portando ai proprietari del suo feudo una azienda agricola rinnovata nei contenuti e nell'organizzazione grazie a nuovi criteri industriali, economicamente efficaci e promettenti. E magari con la consapevolezza di una missione di interesse generale. Una autentica vocazione sulla qualità della terra che gli è affidata. Invece, per una infinità di colpe distribuite tra tutti i protagonisti di questa triste storia, al vecchio amministratore e persino ai suoi più giovani presuntuosi discendenti ormai da tanti decenni non è accaduto di pensare che questa radicale innovazione di se stessi fosse necessaria. Oppure, se lo hanno pensato, hanno creduto o verificato di non avere i mezzi per farlo. Sicuramente l'insensata condotta di vita della proprietà li ha messi nella condizione di avere poco o nullo tempo a disposizione per farlo. E ovviamente nessuno spazio, perché o troppo pieno o troppo vuoto.
Torniamo ora esplicitamente alla questione universitaria. Essa viene di solito ridotta ad alcune verità ritenute inconfutabili: da decenni nessun governo ha investito il denaro necessario a garantire un sistema di ricerca e formazione adeguato allo sviluppo della società; dunque, povertà strategica della politica come sistema di valori dominanti (ma anche di clientele) insieme alla arretratezza culturale e manageriale dei politici di “persona”, in quanto cittadini ancor prima che singoli professionisti impegnati nella gestione delle risorse nazionali e dell'interesse pubblico (serrati dentro gli apparati amministrativi oppure schierati all'opposizione); congiunzione perversa tra questa miopia politica sulla situazione di crisi estrema dell'università italiana e la oggettiva stretta economica in cui versano le nostre casse dello Stato; scarso se non inesistente impegno su questo nodo assolutamente cruciale per la salute del sistema nazionale anche da parte dell'impresa privata, pur così incline ultimamente a ridefinirsi in un quadro di valori etici; gap sempre più forti tra la nostra università e quelle di altri paesi sviluppati e persino in via di sviluppo.
Queste considerazioni sono ritenute tanto vere, dette o non dette che siano, da non servire più a nulla: i professionisti di ogni tipo di politica - di chi governa le istituzioni dall'esterno o dall'interno, dai vertici ministeriali o da quelli accademici - usano tali verità come trama di negoziazioni necessarie alla sopravvivenza dei propri rispettivi ruoli. Le usano. Ma sanno che sono verità senza possibile soddisfazione. La verità è ciò in cui le parti in conflitto convengono, dunque essa a sua volta è luogo conveniente. La verità conviene. Chi sino a ora ha detto di risolvere i problemi dell'università mente sul fatto di poterli risolvere (ad esempio continuando a far credere di poterlo fare con procedure politiche e giuridiche ordinarie), ma non riesce a nascondere il fatto che vadano risolti. Paradossalmente disponiamo in abbondanza di verità su ciò che va affrontato ma manchiamo di verità sui modi con cui agire.
Che in questo meccanismo - in cui la verità si fa strumento del suo contrario - ci sia un poco di miseria umana è sicuro. Di scarso coraggio, anche. Ma è altrettanto certo che un politico o un manager che credesse davvero nelle verità oppure nelle menzogne che dice perderebbe qualsiasi possibilità di agire e verrebbe spazzato via da chi invece gioca indifferentemente sul vero attraverso il falso e magari sul falso attraverso il vero (naturalmente trattasi comunque di verità o falsità ritenute tali e, proprio per questo, politicamente significative, dunque sfruttabili, cioè capaci di indicare e mettere allo scoperto i poteri che le sostengono per farsene un sostegno).
(1 - continua)