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Università: l’analisi e la diagnosi dell’ANVUR e le intenzioni della Ministra Giannini.

Cosa dovrebbe fare un ministro alla luce della mole di informazioni fornite dal Rapporto sullo stato dell’università e della ricerca dell’ANVUR?

03/05/2014
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ROARS

Cosa dovrebbe fare un ministro alla luce della mole di informazioni fornite dal Rapporto sullo stato dell’università e della ricerca dell’ANVUR? Fabio Matarazzo, già Direttore Generale del MIUR, non solo dà qualche suggerimento, ma sottolinea l’urgenza di rottamare alcuni vacui ritornelli: “Le 615 pagine del rapporto ci consentono ora di conoscere da vicino, come mai finora, le specifiche situazioni in cui si articola il sistema. … E’ importante, migliorarne standard e risultati. Ma se si vuole intraprendere questa via, l’unica, a mio parere, in grado di assicurare il progresso di tutte le diversificate realtà con un percorso di continuo accompagnamento, deve dimenticarsi il risonante ma, alla prova dei fatti, vacuo ritornello della competitività, del merito, dei premi che poi non arrivano e delle punizioni che poi si rivelano impossibili.”

L’Agenzia di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) ha presentato a Roma, il 18 marzo, il suo primo rapporto biennale, cioè il “Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca per il 2013”. La versione integrale, di ben 615 pagine, si può consultare al seguente indirizzo:

Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013

E’ tuttavia disponibile anche una più agile versione di sintesi:

Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013 – SINTESI

La dettagliata fotografia della situazione dell’Università e delle ricerca del nostro Paese conferma, sostanzialmente, pur con la dovizia dei dati ed ampiezza di analisi – che, in aggiunta a ciò che era tradizionalmente presente nei Rapporti annuali del Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, CNVSU, comprendono ora anche gli enti di ricerca e le istituzioni AFAM – una malattia conosciuta da tempo. Ne segnalano il degrado progressivo e viepiù preoccupante, senza che, alle viste, si intravveda alcun accenno di inversione di tendenza. L’Italia risulta, ancora una volta, tra i paesi con la più bassa percentuale di laureati anche tra i più giovani e, nonostante l’incremento dei titoli in questa fascia di età, non si è affatto ridotto lo scarto rispetto ai valori medi europei, di gran lunga superiori. E’ sempre più evidente la progressiva disaffezione dei nostri diplomati nei confronti dell’Università. Il tasso di passaggio scuola-università risulta di ben 11 punti inferiore a quello medio europeo. Gli immatricolati con almeno 25 anni sono soltanto l’8% del totale contro un valore medio del 17%. E’ notevole la flessione del numero delle immatricolazioni.

Nonostante la difficoltà per i diplomati di trovare lavoro, l’Università non rappresenta più, evidentemente, un’appetibile area di parcheggio in attesa di prospettive future migliori né, tanto meno, l’utile ascensore sociale che ne ha caratterizzato la funzione negli anni passati. Rimane alto, nonostante il 3+2, il numero degli abbandoni e basso il numero di coloro che ottengono il titolo, anche di primo livello, negli anni previsti. La media, per una laurea triennale, è di 5,1 anni. Eppure la laurea conviene, ce lo dice da tempo ‘AlmaLaurea’, lo conferma il rapporto. Conviene per le possibilità di impiego e per la gratificazione anche economica che ne deriverà nel corso degli anni. Questa constatazione non è però in grado di motivare a sufficienza studenti e famiglie a proseguire gli studi. Incide negativamente, forse, l’opinione, di cui si fa cassa di risonanza il sistema mediatico ma anche qualche celebrato opinionista, secondo cui il nostro sistema produttivo non ha bisogno, e anzi in qualche modo osteggia i laureati, per rivolgersi a tecnici e diplomati con preparazione calibrata meglio per le esigenze delle piccole e medie industrie.

Diminuiscono le spese; diminuisce l’offerta formativa, permane l’assurdo fenomeno delle idoneità senza borsa nel diritto allo studio. Nel prossimo futuro mancheranno almeno 9000 professori. Il rapporto tra la spesa per l’istruzione universitaria e il PIL segna un meno 37% rispetto alla media OCSE. Insomma, i numeri sono tutti a disposizione e non c’è ragione di insistere per descrivere il piano inclinato sul quale ormai da tempo sta scivolando la nostra università e con essa la nostra capacità di progresso e di ruolo attivo nella società e nell’economia della conoscenza, di cui pure esaltiamo ad ogni piè sospinto l’importanza.

Questo quadro fosco, del quale lo stesso Ministro si è dimostrata preoccupata, non sembra tuttavia aver suscitato nelle sue prime parole, e nei commenti che si sono letti sulla stampa, quel moto di reazione determinato e consapevole della necessità, non più procrastinabile, di quella “scossa”, del “cambiare verso”, che in altri campi contraddistinguono tanta parte del messaggio mediatico dell’attuale governo. Per l’università e la ricerca, pilastri essenziali della strategia governativa, più volte evocati quale teste di capitolo di una opportuna riscrittura del patto sociale, non sembra profilarsi una volontà di contraddire le linee di tendenza delle politiche che in questi anni hanno accompagnato, al di là delle diverse accentuazioni e dell’alternarsi dei ministri e dei governi, questa parabola declinante quasi fosse un esito scontato e irreversibile di un pensiero unico e di un contesto economico immutabile.

La Ministra riconosce nel sapere e nella conoscenza un essenziale strumento di riscatto sociale e giustamente considera il calo delle immatricolazioni una questione politica, etica ed economica allo stesso tempo, ma, detto questo, non enuncia, almeno per ora, propositi concreti per affermare discontinuità di azione dai suoi predecessori. Certo, afferma la necessità di migliorare l’immagine del nostro sistema universitario per renderlo nuovamente attrattivo per gli studenti ed i docenti stranieri. La semplificazione delle procedure di accesso e di selezione torna ancora una volta nelle dichiarazioni del Ministro, così come l’urgenza di potenziare l’orientamento e il tutoraggio per ridimensionare abbandoni e i fuori corso. Anche per il diritto allo studio è stato apprezzabile sentire la Ministra denunciare l’ignominia degli idonei senza borsa, ma anche questa dichiarazione soffre della ripetitività con cui viene ribadita da tutti senza risultati concreti. Sono intenzioni positive che non possono non essere condivise ma sono attese alla verifica dei fatti. Troppi annunci analoghi abbiamo ascoltato in questi ultimi anni, e nessuno di essi è stato capace di frenare l’incremento dei numeri che abbiamo letto.

Le 615 pagine del rapporto ci consentono ora di conoscere da vicino, come mai finora, le specifiche situazioni in cui si articola il sistema. Mettono in chiaro che esso non è costituito da entità uniformi che possano essere regolate in maniera unitaria e omogenea; pongono in luce che non possono essere giudicate in base a processi burocratici preordinati ed astratti, ma, e su questo sembra consentire e insistere la Ministra, sui risultati conseguiti. E’ importante, credo, questa possibilità di avvicinare, con l’azione di governo, ciascuna realtà e operare rispetto alle sue concrete esigenze per migliorarne standard e risultati. Ma se si vuole intraprendere questa via, l’unica, a mio parere, in grado di assicurare il progresso di tutte le diversificate realtà con un percorso di continuo accompagnamento, deve dimenticarsi il risonante ma, alla prova dei fatti, vacuo ritornello della competitività, del merito, dei premi che poi non arrivano e delle punizioni che poi si rivelano impossibili.


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