Università, il sistema italiano è «depresso»: calano fondi e iscrizioni
La discesa italiana contrasta con il ritmo di marcia ingranato nel resto d’Europa da paesi come Germania
Alberto Magnani
Negli anni della crisi, il sistema universitario italiano è entrato in una spirale «da bollino rosso». Il motivo? Il calo incrociato di iscrizioni, staff accademico e, soprattutto, finanziamenti: le risorse stanziate a favore degli atenei, pari a 6,9 miliardi di euro nel 2016, sono diminuite del 5,1% in valore nominale e del 12% in valori indicizzati dal 2010 al 2016. Lo registra la European university association (Eua), un’organizzazione di atenei europei, nell’edizione 2017 del suo Public funding observatory: un’indagine svolta su 34 paesi del Vecchio continente per rivelare lo stato dell’arte dei finanziamenti all’istruzione terziaria. La discesa italiana contrasta con il ritmo di marcia ingranato nel resto d’Europa da paesi come Germania (finanziamenti per 30 miliardi, su del 33% nel periodo 2010-2016) e Francia (24 miliardi di euro, in crescita del 4,8% nel 2010-2016). Il deficit fa scivolare i nostri atenei nel blocco dei paesi «in declino e sotto pressione»: i sistemi universitari dove il calo di investimenti pubblici si è accompagnato a un crollo delle iscrizioni.
L’allarme: il modello italiano «si sta aggravando»
Il report attinge ai dati raccolti da un network di oltre 100 atenei e 31 conferenze di rettori, inclusa la “nostra” Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane). I paesi che registrano un calo di finaziamenti sono 19, dalla Finlandia alla Grecia, con un grado di instabilità che varia a seconda del rapporto tra studenti iscritti e fondi incassati. In sette casi, come il Regno Unito e l’Ungheria, il sistema viene considerato «in pericolo» perché l’aumento delle iscrizioni non è corrisposto a una crescita di fondi a ritmo simile. I restanti 12 vengono ricompresi fra quelli «in contrazione» perché il taglio ai finanziamenti si è affiancato a una diminuzione degli studenti iscritti ai vari dipartimenti. Come l’Italia, appunto, evidenziata tra i sistemi «in fase di aggravamento» insieme a Spagna e Lettonia. I finanziamenti, come visto sopra, sono discesi a ritmo costante dai più di 7 miliardi annui che si registravano nel 2011. Le immatricolazioni hanno seguito la china, calando dalle 288.286 del 2010-2011 alle 260.755 del 2015-2016. La cifra non è esorbitante, ma va rapportata ad altri problemi (come l’assenza di incentivi allo studio) che potrebbe rendere sempre più complicato l’accesso all’università.
Oltre alla diminuzione di capitali e matricole, i tagli alle università hanno mietuto vittime su un altro pilastro del sistema: lo staff, le risorse che lavorano negli atenei con funzioni di didattica, ricerca e amministrazione. In particolare, tra 2008 e 2016, il calo è stato di circa il 15% per le prime (personale accademico) e di circa il 20% per le seconde (personale extra-accademico). Questione di congiuntura? Anche, ma non solo. L’Italia compare tra i paesi che hanno disinvestito in istruzione terziaria nonstante un modesto tasso di crescita: l’esatto contrario della strategia adottata da economie come Germania e Danimarca, dove i finaziamenti all’università sono cresciuti a un ritmo maggiore di quello del Pil. «Direi che è indicativo. Se il paese cresce ma non investe in università, si tratta probabilmente di una scelta politica», dice Thomas Estermann, uno dei principali studiosi della European university association dietro al report.
Il rischio contagio per l’economia
Il declino degli investimenti non si esaurisce nella “sola” tenuta del sistema universitario e dell’accesso agli studi. Un minor afflusso di capitali sugli atenei riduce le potenzialità di segmenti vitali per la crescita, a partire dalla R&D: l’attività di ricerca e sviluppo, non a caso classificata dalla Commissione europea come «al di sotto degli standard Ue» e finanziata con l’equivalente di appena l’1,33% del Pil (la media europea è del 2,03%). Senza contare la fuga all’estero di una buona quota di ricercatori, costretti a migrare - sempre secondo la Commissione - per «l’assenza di prospettive di carriera o in cerca di retribuzioni migliori» di quelle emerse in patria. «L’innovazione fa da motore per la crescita economica, a partire dalla formazione di risorse qualificate - dice Estermann - Se investi sul settore puoi permettere a più persone di trovare un lavoro adatto». Anche la tesi che l’assenza di fondi pubblici sia compensata dal privato rischia di restare sulla carta. «Se abbassi gli investimenti pubblici non puoi aspettarti che crescano quelli privati - dice Estermann - Eppure l’Italia sembra aver fatto così».