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Università, i limiti dell’abilitazione «mediana»

di GIORGIO ISRAEL

30/06/2012
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Il Messaggero


SE il presidente di Confindustria ha detto di aver smesso di leggere la riforma del lavoro dopo poche pagine perché gli «fumava il cervello», la lettura del decreto per l’abilitazione nazionale a professore universitario potrebbe liquefare il cervello dei comuni mortali. Basti dire che il primo articolo è dedicato alle «definizioni» di concetti come «parametro», «indicatore», «mediana». Difatti, le nuove procedure mirano a marginalizzare la soggettività dei giudizi dei commissari introducendo criteri scientifici «oggettivi». Tra questi spicca quello della «mediana», un numero che dovrebbe definire i requisiti minimi per far parte di una commissione giudicante e per essere ammessi al giudizio.
Siamo tutti abituati a maneggiare le medie. Se ognuno dei 10 dipendenti di una piccola azienda guadagna 1000 euro al mese e il dirigente ne guadagna 12.000, la media delle retribuzioni sarà il totale diviso per il numero di dipendenti: 22.000 diviso per 11, cioè 2000 euro. La mediana è ben diversa dalla media: messi i dati, cioè i valori degli stipendi, in ordine crescente, essa è il valore di mezzo, quello che divide la lista in due parti uguali. Nel nostro esempio, cinque da ogni parte, e la mediana è 1000. Il libro sulla statistica più venduto della storia, «Mentire con le statistiche» di Darrell Huff, spiega come essa sia una disciplina che consente di manipolare, anche con intenti poco raccomandabili. Il caso di prima fornisce un buon esempio. Il datore di lavoro userà la media (la statistica del pollo di Trilussa: ogni italiano ha mangiato mezzo pollo in media, anche se non ne ha mai visto uno) per dire «come si guadagna bene nella mia azienda!». I lavoratori risponderanno con la mediana per dire «guarda che stipendi miserabili sono i nostri!».
Si dirà: ma cosa c’entra tutto questo con l’università? C’entra, perché – semplificando perché non fumi la testa, ma senza tradire la sostanza – l’idea è di stimare il valore di un professore universitario giudicante o candidato con una statistica. Non con il numero delle pubblicazioni – indice troppo rozzo, che non dice nulla sulla qualità – ma con il numero di citazioni ottenute dalle pubblicazioni, che dovrebbe essere un indicatore di qualità. I professori «ammessi» sarebbero quelli che superano la mediana delle citazioni nel loro settore.
A prima vista il criterio non sembra malvagio. L’esempio precedente lascia credere che la mediana difenda i «disagiati». Niente affatto. Prendiamo i casi (autentici) di gruppi di docenti che praticano una disciplina difficile e poco citata e che appartengono a raggruppamenti in cui vi sono altri gruppi numerosi di docenti che pubblicano lavori per niente «migliori» ma molto citati. I primi avranno valori molto bassi, gli altri molto alti e la mediana si attesterà su questi ultimi. Risultato: tutti i commissari e i candidati del primo ambito (inclusi i loro settori di ricerca e didattica) saranno spazzati via.
In realtà, il difetto è molto più profondo del fatto che il migliore filologo classico o fisico teorico è inevitabilmente meno citato di un mediocre genetista (si dirà che le mediane vengono calcolate per settore, anche se questo non evita problemi come quello menzionato). Esso attiene all’idea stessa che il numero di citazioni dica qualcosa circa la qualità di un lavoro scientifico. I motivi per cui si cita sono innumerevoli ed eterogenei, e non sempre irreprensibili. Si cita per esibire la propria conoscenza bibliografica, si cita per favorire gli amici, si cita sé stessi, si cita per debito intellettuale (o servilismo) nei confronti dei maestri, non si citano i lavori importanti di colleghi sgraditi o delle cordate ostili, e via dicendo. Come se non bastasse, la stima del numero di citazioni viene fatta su un database gestito da una ditta privata, la Thomson-Reuters, che tiene scarso conto dei libri, nessuno di tutto ciò che sa vagamente di umanistico, e indicizza solo certe riviste che, guarda caso, sono quelle che poi sponsorizza fortemente affinché le biblioteche le acquistino. Come pretendere che via sia qualcosa di oggettivo in tutto questo?
Gli ambienti universitari umanistici hanno visto il pericolo della bibliometria e hanno protestato. Quel che è stato loro concesso peggiora le cose: una divisione tra settori scientifici e settori umanistici, i primi soggetti a rigidi criteri bibliometrici, i secondi a forme di valutazione diverse, per lo più basate su classifiche di qualità delle riviste elaborate dall’Anvur (l’Agenzia di valutazione dell’università e della ricerca, che dirige l’intero processo), le quali, alla fine, utilizzano sempre un criterio di mediana, con modalità che tralasciamo per non far fumare la testa del lettore. Chi ha stilato le classifiche di qualità delle riviste? Una mente «oggettiva» di natura divina? Soltanto gruppi di ricercatori con le loro opinabili idee «soggettive», tanto è vero che il risultato ha aperto un contenzioso senza fine. Né si vede perché mai un articolo debba essere considerato di valore perché pubblicato in una data rivista. Alla fine dell’Ottocento a Palermo nacque un Circolo Matematico che iniziò la pubblicazione di una rivista che, sebbene di terz’ordine (con i criteri dell’attuale decreto) si fece conoscere per la sua qualità editoriale. Mezzo mondo scientifico europeo guardò con simpatia all’impresa e i Rendiconti vantarono la pubblicazione di alcuni tra i più famosi articoli scientifici del primo Novecento. Chi oggi si sognerebbe di pubblicare articoli su una rivista classificata di serie C per poi vedere il suo articolo sotto la mediana indipendentemente dal suo valore? Altro che largo al nuovo e ai giovani: questa è la via maestra per sbarrare la strada alle novità e sclerotizzare definitivamente la ricerca.
Ma l’aspetto più devastante è aver sanzionato per decreto la divisione delle culture scientifiche e umanistiche, separate da un rigido muro valicabile soltanto attraverso il ponte della mediana. Dal lato scientifico le discipline teoriche saranno duramente ridimensionate e i pochi punti di contatto con le scienze umane (storia, filosofia della scienza) saranno spazzati via; dall’altro regnerà l’arbitrio delle classifiche delle riviste. La miopia di chi, da parte umanistica, ha chiesto un «trattamento di favore», sta nel non aver voluto vedere che da tempo all’estero, proprio in ambiente scientifico, cresce la pubblicistica che denuncia il crollo di probità provocato dalla bibliometria dei nefarious numbers (i numeri scellerati), che induce a comportamenti scorretti, fino al formarsi di conventicole che citano a vicenda articoli senza valore scientifico e persino plagiati. In Australia, il governo ha abolito la bibliometria nella valutazione della ricerca scientifica. Nel nostro sfortunato paese, invece di approfittare del vantaggio di arrivare per ultimi e di valutare le esperienze altrui, siamo stati capaci di inventare una cura peggiore del male delle pastette delle commissioni: sommare all’arbitrarietà totale della bibliometria il bislacco criterio della mediana, distruggere ogni valutazione di merito a favore di tecnicismi statistici arbitrari.
È diffuso un sentimento di sollievo tra chi, vicino al pensionamento, vede la prospettiva di poter continuare a far ricerca scegliendone i temi secondo criteri esclusivamente scientifici e culturali, e sottoponendo i propri risultati a una valutazione esclusivamente di merito; anche se è un sentimento egoistico, pensando a chi dovrà sopravvivere in un contesto destinato a diventare un deserto culturale.


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