Università e Scuola al SUD nel post COVID: il rapporto SVIMEZ 2020
E’ stato presentato il 25 novembre 2020 il rapporto SVIMEZ 2020 sull’economia e la società del Mezzogiorno.
E’ stato presentato il 25 novembre 2020 il rapporto SVIMEZ 2020 sull’economia e la società del Mezzogiorno. Nel rinviare alla lettura integrale delle note di sintesi del Rapporto pubblicate on line dallo SVIMEZ, riproduciamo il testo della sezione del documento emblematicamente intitolata LA CONVERGENZA INTERROTTA DELLA FORMAZIONE SCOLASTICA E LA QUESTIONE UNIVERSITARIA NEL SUD, rinviando al documento originale per le tabelle che accompagnano il testo. Buona lettura.
La scuola ha visto indebolirsi, soprattutto dopo la lunga e pesante crisi in atto dal 2008, la sua capacità di fare equità, di ridurre i divari nelle opportunità dei ragazzi che vengono da famiglie meno abbienti e meno scolarizzate. L’impoverimento delle famiglie e la riduzione dei fondi per effetto delle politiche di risanamento pubblico hanno allontanato il nostro Paese dai livelli europei e fatto crescere nelle aree più deboli (non solo nel Mezzogiorno ma anche nelle grandi periferie urbane del Nord) il tasso di abbandono scolastico. Il fatto più drammatico è che la scuola non sembrava già prima del Covid in grado di colmare pienamente le lacune di apprendimento e di favorire l’inserimento sociale di chi proviene da situazioni più svantaggiate. La diffusione del coronavirus ha poi costretto le scuole e le università italiane, così come quelle di tanti altri paesi, a modificare radicalmente le modalità di erogazione della didattica, passando dalle lezioni in presenza a quelle online. Una scelta obbligata durante l’emergenza della primavera scorsa ma poi replicata, con l’esclusione di scuola dell’infanzia e primaria, nel corso della seconda ondata autunnale. Un aspetto rilevante da considerare, già emerso con la prima ondata, è che la pandemia potrebbe esacerbare le iniquità formative esistenti nei sistemi scolastici. Il Rapporto SVIMEZ da alcuni anni denuncia l’interruzione del processo di convergenza negli indicatori scolastici che aveva caratterizzato l’intero dopoguerra italiano. Bastano pochi indicatori ad evidenziare la divaricazione territoriale nell’offerta di servizi formativi, che si riflettono chiaramente anche nelle competenze degli studenti monitorati periodicamente dalle indaginiInvalsi e Ocse-PISA.
Il divario Nord/Sud è evidente già dai servizi per l’infanzia. I posti autorizzati per asili nido ed altri servizi rispetto alla popolazione di riferimento sono il 13,5% nel Mezzogiorno ed il 32% nel resto del paese. La spesa pro capire dei comuni per i servizi socio-educativi per bambini da 0 a 2 anni è pari a 1468 euro nelle regioni del Centro, a 1255 euro nel Nord-Est per poi crollare ad appena 277 euro nel Sud. I numeri del Ministero dell’Istruzione sul tempo pieno nelle scuole dell’infanzia e primarie sono disarmanti. Nel Centro-Nord nell’anno scolastico 2017-18 è stato garantito il tempo pieno al 46% dei bambini, con valori che raggiungono il 50,6 in Piemonte e Lombardia; nel Mezzogiorno in media solo al 16%, in Sicilia la percentuale scende ad appena il 7%. È questo un caso paradigmatico della debolezza dello Stato nell’offrire un servizio fondamentale per la crescita culturale dei ragazzi che trova motivazione principale nella debolezza finanziaria delle amministrazioni locali, soprattutto dei Comuni nel garantire le risorse necessarie per l’erogazione delle mense scolastiche, e che non viene percepita come una priorità politica da parte della classe dirigente nazionale e locale.
Il divario quantitativo si combina con un divario qualitativo. Un dato particolarmente preoccupante è che quasi un quarto dei giovani italiani non raggiunge la soglia di competenze (il livello 2 di PISA) internazionalmente ritenuta come quella minima per entrare a far parte della società a pieno titolo: nelle regioni meridionali questa percentuale è intorno ad un terzo. Emerge chiaramente il divario nelle competenze acquisite dagli studenti meridionali sia nell’area matematica, sia nell’area lettura: nel 2015 il 34% degli studenti delle regioni meridionali non raggiunge il livello minimo di competenze matematiche, valore più che doppio di quello rilevabile nel Centro-Nord (16,7%). La medesima distanza, sia pur con valori relativamente migliori, si registra anche nell’area della lettura: 29,9% di studenti con basso livello di competenza nella lettura al Sud contro il 15,4% nel Centro-Nord. Il dato più preoccupante riguarda l’interruzione del processo di convergenza tra le due aree verificatosi nell’ultimo decennio. Dopo infatti una riduzione di quasi 15 punti percentuali degli studenti meridionali con competenze inadeguate tra il 2003 e il 2009, a partire da quella data tale percentuale è rimasta invariata, pur in presenza di un ulteriore miglioramento nelle regioni del Centro-Nord.
Sul fronte della dispersione scolastica gli ultimi anni hanno visto significativi miglioramenti anche in Italia. Facendo riferimento alla più diffusa misura di dispersione scolastica a livello internazionale, gli Early Leavers from Education and Training (ELET: giovani di 18-24 anni che hanno abbandonato gli studi senza aver conseguito licenza media, né aver concluso un corso di formazione professionale riconosciuto dalla Regione di durata superiore ai 2 anni e che non frequentano corsi scolastici o svolgono attività formative), da valori vicini al 20% nel 2008 si è passati al 13,5% nel 2019, valore, tuttavia ancora lontano rispetto al target di Europa 2020 (10%) e dalla media europea (10,6%). Il declino dell’indicatore, peraltro, ha decisamente rallentato nell’ultimo triennio.
L’analisi a livello territoriale conferma i problemi delle regioni meridionali e, soprattutto, insulari. Il Mezzogiorno presenta tassi di abbandono assai più elevati: nel 2019, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, gli Early Leavers meridionali erano il 18,2% a fronte del 10,6% delle regioni del Centro-Nord. Valori più elevati si registrano nel Mezzogiorno sia per i maschi (21% a fronte del 13,7% del Centro-Nord) sia per le femmine (16,5% a fronte del 9,6% del Centro-Nord). Ma soprattutto emerge chiaramente a partire dal 2012 prima un rallentamento della tendenza alla riduzione dell’abbandono scolastico e poi dal 2016 una sostanziale interruzione di tale processo.
La pandemia potrebbe esacerbare le iniquità formative esistenti nei sistemi scolastici. Gli studenti più svantaggiati potrebbero rimanere ancora più indietro rispetto ai loro compagni a causa della mancanza degli strumenti necessari per poter seguire le lezioni a distanza. In un tale contesto assume importanza ancora maggiore l’ambito familiare con un potenziale incremento del divario tra le famiglie in grado di far fronte alle difficoltà connesse all’interruzione della didattica in presenza e quelle dotate di scarsi mezzi culturali ed economici. L’aspetto critico è che la carenza di strumenti e la presenza di un background familiare svantaggiato spesso coesistono, con gravi ripercussioni sull’eguaglianza delle opportunità che l’istruzione dovrebbe offrire. Ne è chiara testimonianza il dato relativo alla quota di ragazzi tra i 6 i 17 anni che vivono in famiglie in cui non sono disponibili dispositivi informatici. Il divario territoriale anche in questo caso è rilevante, 7,5% al Nord contro 19% nel Mezzogiorno, e assume dimensioni crescenti in base alle caratteristiche delle famiglie di appartenenza. Nel caso di genitori con al massimo la scuola dell’obbligo, la percentuale di ragazzi che non ha disponibilità di un sussidio informatico nel Sud raggiunge il 34%. Il rischio è che un terzo dei ragazzi di queste famiglie, senza adeguati e tempestivi interventi da parte delle istituzioni, che pure sono intervenute in questo ambito, vengano esclusi dal percorso formativo a distanza con conseguenze rilevanti nei prossimi anni sui tassi di dispersione scolastica.
Con riferimento alla formazione universitaria, la ripresa degli immatricolati e del tasso di passaggio nel periodo di debole ripresa (2013-19) ha consentito solo un parziale recupero per il Mezzogiorno, ancora lontano dai valori del 2008, a differenza del Centro-Nord che è ritornato sui valori pre-crisi. Secondo il dato più recente, 2019, il Mezzogiorno ha ancora 12.000 immatricolati in meno rispetto al 2008 e un tasso di passaggio di oltre 5 punti percentuali più basso. Viceversa, il Centro-Nord ha registrato per l’intero periodo un incremento di 30.000 immatricolati circa e un aumento di oltre un punto percentuale del suo tasso di passaggio.
Nonostante i molti segnali incoraggianti relativi agli immatricolati 2020, ad oggi non è ancora possibile una accurata analisi a causa dell’indisponibilità di dati definitivi sulle iscrizioni. Da una prima seppur parziale lettura dei dati, emerge che per l’anno accademico in corso (2020/2021) ci sarebbe un lieve incremento degli immatricolati con una netta diminuzione della mobilità interprovinciale e interregionale. Questa primissima evidenza, figlia del periodo di incertezza che stiamo vivendo, andrà verificata e approfondita nel prossimo Rapporto.
Nel 2020 il Governo ha previsto uno specifico intervento nel DL Rilancio che ha incrementato l’FFO (Fondo per il finanziamento ordinario dell’Università) di 165 milioni di euro per l’esonero totale della retta universitaria agli studenti con fascia ISEE inferiore ai 20mila euro e parziale per quelli tra 20mila e 30mila. Ad oggi, non è ancora possibile verificarne gli effetti con accuratezza a causa dell’indisponibilità di dati definitivi sulle iscrizioni ma con buona probabilità la misura contribuirà a ridurre le disparità territoriali e di reddito che permangono su tutto il territorio nazionale. È inoltre in discussione, nell’ambito delle risorse REACT-EU, la possibilità di estendere tale misura ad una o altre due annualità la no-tax area.
Questa policy è di cruciale importanza per incentivare le immatricolazioni universitarie soprattutto se si considera il generale calo della popolazione giovanile, la diminuzione dei tassi di partecipazione universitaria e l’effetto che questi hanno sui processi di accumulazione di capitale umano nel lungo periodo ed, infine, sulla crescita economica del Paese.
Per l’anno 2020 l’FFO si è attestato intorno a circa 7,8 miliardi di euro. Seppur tale cifra confermi il trend positivo dell’FFO che, nei suoi valori di spesa corrente, continua a crescere dal 2015, non può tuttavia non segnalarsi come, analizzando i valori reali a prezzi costanti 2015 e prendendo in considerazione l’inflazione al 2019, esso sia addirittura inferiore del 5% del suo valore al 2008.
I processi di agglomerazione economica in Europa e in Italia ci stanno offrendo uno scenario dove aumenta strutturalmente la diseguaglianza tra un centro sempre più in grado di attrarre capitale fisico e capitale umano di qualità e una periferia in ritardo a causa dei divari infrastrutturali, dei gap territoriali di ricchezza e occupazione e della stagnazione demografica. Questi fenomeni hanno interessato anche il sistema universitario del Paese.
Dal punto di vista delle politiche occorre tener presente le disparità esistenti nei territori del Paese e disegnare misure atte a combatterle. L’obiettivo deve essere garantire un sistema universitario il più possibile omogeneo dal punto di vista della qualità della ricerca e della didattica ma allo stesso tempo capace di preservare e promuovere le punte di qualità che lavorano in tutto il Paese. Oltre alla necessità di incrementare le risorse disponibili del sistema universitario è necessario incentivare una buona governance degli atenei a partire da un reclutamento fortemente orientato alla qualità e alla internazionalizzazione (dimensione naturale di una ricerca di qualità). Le Università meridionali e di altre zone periferiche del Paese dovranno saper orientare le loro scelte di governance e reclutamento verso un sistema più teso al merito e alla promozione dei giovani ricercatori.
La Figura seguente [consultala nelle note di sintesi] fornisce la mappa del numero di ricercatori Rtd-b reclutati dagli Atenei italiani suddivisi su scala regionale nel periodo 2015-2019. L’Italia ha reclutato nel periodo 2015-2019 in media 2,12 Rtd-b ogni 10mila abitanti, il Centro Nord 2,41 e il Mezzogiorno 1,58. Trentino, Emilia-Romagna e Toscana hanno rispettivamente 3,49, 3,18 e 3,06 ricercatori e, in fondo alla classifica, la Basilicata con 0,83, la Calabria con 0,91 e la Puglia con 1,01 ricercatori ogni 10mila abitanti.
Occorre dunque riequilibrare questa disparità tra le regioni italiane e investire in quantità, attraverso l’assunzione di ricercatori negli atenei che si trovano nelle regioni più svantaggiate, e qualità, attraverso un reclutamento autenticamente orientato all’assorbimento di risorse umane in grado di proiettare il sistema universitario italiano nel futuro.