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Università e mondo del lavoro: chi non fa il suo dovere?

Il mondo aziendale, organizzato o rappresentato di volta in volta da Confindustria, think tank di vario tipo, media fiancheggiatori e perfino forze di governo, va ripetendo da tempo che l’università italiana non prepara i giovani al lavoro come dovrebbe

13/02/2018
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ROARS

Edoardo Lombardi Vallauri

Il mondo aziendale, organizzato o rappresentato di volta in volta da Confindustria, think tank di vario tipo, media fiancheggiatori e perfino forze di governo, va ripetendo da tempo che l’università italiana non prepara i giovani al lavoro come dovrebbe. Eppure, i laureati italiani, se hanno la forza di abbandonare questo paese e vanno – poniamo – in Olanda o in Germania, trovano lavoro a volte immediatamente, a volte rapidamente; e lì si rivela che sono adeguati a produrre la molta ricchezza che vi si produce. Ad esempio molti miei ex studenti (laureati in Lettere o in Lingue, non in ingegneria elettronica), poche settimane dopo il loro arrivo in Germania, hanno un lavoro. Non un lavoro a caso: quello che volevano e per cui hanno studiato. Non solo: i nostri laureati, che escono da un sistema universitario costretto a lavorare con risorse pari alla metà o a un terzo dei paesi concorrenti, trovano lavoro proprio in quei paesi dove le università sono finanziate il doppio o il triplo che da noi. Certo, l’università italiana ha ancora molti difetti, e può migliorare. Ma – ovviamente – migliorerà se i governi, invece di strozzarla, ci investiranno adeguatamente. Tutti quegli italiani che – di solito dal “mondo del lavoro” – sparano a zero sulla nostra scuola e la nostra università si rendano conto che la percentuale del PIL destinata a finanziare l’università è in Germania – a seconda del modo di calcolarla – da 2 a 4 volte la nostra, anche perché negli ultimi 10 anni è cresciuta del 23%; mentre da noi nello stesso periodo i governi l’hanno ridotta del 22%. Col risultato che ora siamo penultimi nell’Europa a 15 per il rapporto tra il finanziamento all’istruzione e il PIL. In questa situazione, e nonostante i vergognosi attacchi di ogni tipo, scuola e università  formano giovani adatti al mercato del lavoro nei paesi in assoluto più progrediti. Mentre il mondo delle aziende in Italia ai giovani non è capace di darglielo, un lavoro. Insomma, forse è il caso di ripensare chi è che non fa bene la sua parte.

Le periodiche polemiche come quella scatenatasi l’anno scorso dopo le dichiarazioni del ministro Poletti contro i giovani italiani che sono andati all’estero a cercare lavoro[1]hanno sullo sfondo un grave malinteso, di cui non per caso a suo tempo poco si è detto. Ma forse, più che quando infuria la polemica, è utile fare una riflessione quando le acque sono calme e tutti tendono a non pensare più al problema; che invece esiste sempre.

Il mondo aziendale, organizzato o rappresentato di volta in volta da Confindustria, think tank di vario tipo, media fiancheggiatori e perfino forze di governo, va ripetendo da tempo che l’università italiana non prepara i giovani al lavoro come dovrebbe, e come invece farebbero le università di altri paesi. L’università sarebbe dunque gravemente responsabile della crisi produttiva e del mondo del lavoro. Una delle ragioni per cui questa opinione di provenienza aziendale riceve un qualche credito è che – nell’attuale prevalere della mentalità economicistica – chi più evidentemente produce ricchezza ha più voce in capitolo. L’idea soggiacente è: siamo in crisi economica, il rimedio può venire solo da chi genera la ricchezza, quindi che ci piaccia o no coloro che generano la ricchezza hanno la visione che conta, e bisogna seguire le loro indicazioni.

Sarà utile occuparsi in un successivo intervento di quanto poco sia vero che l’istruzione e la ricerca scientifica producano meno ricchezza delle aziende, e dimostrare ciò che ai più attenti appare chiaro, cioè che istruzione e ricerca sono indispensabili per produrre ricchezza, anche se in modo meno visibile perché più a lungo termine. Qui ci limitiamo a osservare che ultimamente le aziende italiane di ricchezza ne generano meno dell’auspicabile. Ebbene, l’università, che invece deve generare sapere e saper fare, ne genera anche lei così poco? Perché le aziende, per non prendersi la colpa del fatto che non riescono più a produrre ricchezza, da tempo praticano sull’opinione pubblica una sorta di scaricabarile: la colpa non è nostra, dicono, ma – fra gli altri cattivi – della scuola e dell’università, che non preparano i giovani per il lavoro.

Ebbene, a quale lavoro l’università dovrebbe preparare ciascuno studente? Frequentando il mondo aziendale si constata che in ogni azienda si fa un lavoro diverso, e che in ogni comparto di una stessa azienda si fa un lavoro diverso; e perfino in ogni stanza dello stesso comparto della stessa azienda si fa un lavoro diverso. Quindi perfino arrivando da un’altra azienda dello stesso settore o da un’altra stanza della stessa azienda, per svolgere il nuovo lavoro per qualche mese si deve imparare il lavoro specifico della nuova posizione. Per ovvi motivi, la varietà dei compiti nel mondo del lavoro è tale, che chi pretendesse una preparazione specifica per il compito che gli toccherà dovrebbe indovinare in che stanza di che azienda lavorerà. Salvo che poi dopo un anno e mezzo verrà spostato ad altro incarico, e dovrà dedicare qualche mese a imparare quello. Anche per questo, ciò che l’università deve garantire non sono ometti e donnine che sappiano già svolgere uno o l’altro singolo incarico; ma persone che, avendo acquisito conoscenze generali nel settore che gli interessa, abbiano anche acquisito la capacità di imparare le cose – in larga parte imprevedibili – che gli serviranno in futuro.

Questo significa che le persone devono uscire dall’università sapendo (1) che cosa vuol dire approfondire un problema quanto serve, senza accontentarsi di soluzioni approssimative; e (2) come andare a cercare le informazioni quando gliene servono di nuove che ancora non conoscono. Studiare ad alti livelli serve a questo. Non importa se ci si laurea sulla tradizione manoscritta della Chanson de Roland o sull’impiego di un nuovo batterio nel processo di produzione di sacchetti per la spesa biodegradabili: se si lavora bene – e ben guidati – alla tesi di laurea, ci si avvicina molto a capire a che livello di precisione e di efficienza l’umanità è in grado di affrontare un problema. Di conseguenza, non ci si accontenta più dei livelli inferiori. Questa è la ragione delle norme che hanno sempre richiesto titoli di studio più alti come condizione per i livelli di responsabilità più alti. Non si tratta di tentativi di mantenere in vita privilegi di classe; si tratta di adibire ai compiti difficili chi sa fare le cose difficili.

Secondo una mentalità meccanica e semplicistica, l’università non preparerebbe al lavoro perché non produce individui bell’e pronti, già impiegabili in una precisa posizione – miracolosamente indovinata fra le migliaia possibili. Cioè, individui che per un’altra posizione sarebbero inadeguati. In realtà non è di questo che c’è bisogno; ma nell’attuale lungo periodo di crisi economica questa sommaria accusa è servita molto bene a scaricare sul sistema dell’istruzione buona parte delle responsabilità che in realtà sono del mondo aziendale. Tuttavia non è difficile verificare che è falsa. Basta liberarci da meccanismi condizionati che impediscono di vedere il nesso fra le cose che pure già conosciamo.

I laureati italiani, se hanno la forza di abbandonare questo paese e vanno – poniamo – in Olanda o in Germania, trovano lavoro a volte immediatamente, a volte rapidamente; e lì si rivela che sono adeguati a produrre la molta ricchezza che vi si produce. Non si tratta solo della notissima “fuga dei cervelli”, per cui i giovani scienziati italiani fanno ottima figura nelle istituzioni di ricerca di mezza Europa e degli Stati Uniti,[2] e ottengono molti bandi europei ERC Consolidator.[3] Si tratta semplicemente della fuga di laureati che vogliono fare il lavoro per cui hanno studiato. Queste persone, ad esempio molti miei ex studenti (laureati in Lettere o in Lingue, non in ingegneria elettronica) hanno subito anni di frustrazioni e di sfruttamento in Italia. Poche settimane dopo il loro arrivo in Germania, hanno un lavoro. Non un lavoro a caso: quello che volevano e per cui hanno studiato. Vengono assunti perché sono preparati. La cosa più emozionante nei loro racconti non è nemmeno che finalmente risolvono i loro problemi economici; è che riscoprono di essere bravi. In anni di fallimenti si erano convinti di valere poco, ed ecco che un’azienda tedesca gli dice: sei al livello che ci serve. Non erano loro, ma chi non li voleva assumere in Italia, a non valere abbastanza.

Se i nostri laureati trovano lavoro più facilmente all’estero che qui, significa che i nostri laureati non sono ben preparati, oppure che il nostro sistema economico non è capace di offrire lavoro? Insomma, come si può dare la colpa all’università italiana, se chi ne esce non può lavorare in Italia, ma può presso aziende di altri paesi? Come si può dire che l’università italiana non prepari adeguatamente per il lavoro, se prepara adeguatamente per lavorare proprio nei paesi dove il lavoro è organizzato secondo standard che producono più ricchezza?

Tra l’altro, se vogliamo domandarci quali siano le responsabilità del sistema universitario nella crisi del sistema paese, dobbiamo tenere conto anche di quali siano le risorse che il sistema paese fornisce all’università per svolgere il suo compito. In Tabella 1 si può vedere quali fossero nel 2010 le risorse di budget e di personale a disposizione di quattro atenei europei (di cui uno italiano) paragonabili per dimensioni, quando erano già in fase avanzata (ma oggi ancora aggravata) le sciagurate riduzioni di spesa e di personale messe in atto da tutti gli ultimi governi a danno delle università italiane, tagli purtroppo politicamente favoriti dalla diffamazione che di esse fanno i cosiddetti ambienti “produttivi”.

Tabella 1 – Dati (2010) sul rapporto fra numero di studenti e risorse a disposizione di alcune università europee paragonabili per dimensioni (Fonte: G. Domenici, Riforma universitaria e (dis)investimenti in ricerca e formazione, in «Journal of Educational, Cultural and Psychological Studies (ECPS Journal)», n. 3, 2011. )

Ebbene, i nostri laureati, che escono da un sistema universitario costretto a lavorare con risorse pari alla metà o a un terzo dei paesi concorrenti, trovano lavoro proprio in quei paesi dove le università sono finanziate il doppio o il triplo che da noi. Se non riescono a impiegarsi altrettanto facilmente in Italia la colpa, palesemente, non è dell’università italiana. Anzi, tenendo conto delle risorse sempre più ridotte a sua disposizione, l’università italiana ha retto finora in maniera ammirevole ed eroica. In realtà chi ci sta dentro sa che non potrà reggere a lungo, e che rischia il collasso, perché si è raggiunto un livello di definanziamento insostenibile, e le conseguenze cominciano a non essere più arginabili.[4] Quindi le forze politiche che si propongono di eliminare le tasse universitarie hanno avuto una bella idea, ma perché non si tratti solo di una misura demagogica devono prevedere adeguate risorse anche perché chi si è iscritto gratis trovi poi un’università in grado di funzionare.

Certo, l’università italiana ha ancora molti difetti, e può migliorare. Ma – ovviamente – migliorerà se i governi, invece di strozzarla, ci investiranno adeguatamente. In ogni caso, per adesso abbiamo avuto un sistema di istruzione così “inferiore” al sistema paese, che abbiamo esportato masse di laureati. Enormemente di più di quanti ne abbiamo importati. Si mettano una mano sulla coscienza tutti quegli italiani che – di solito dal “mondo del lavoro” – sparano a zero sulla nostra scuola e la nostra università, dando ai governi di ogni colore un pretesto per infierire su uno dei settori strategicamente più essenziali per la vita e per l’economia di un paese. Si rendano conto che la percentuale del PIL destinata a finanziare l’università è in Germania – a seconda del modo di calcolarla – da 2 a 4 volte la nostra, anche perché negli ultimi 10 anni è cresciuta del 23%; mentre da noi nello stesso periodo i governi l’hanno ridotta del 22%. Col risultato che ora siamo penultimi nell’Europa a 15 per il rapporto tra il finanziamento all’istruzione e il PIL.[5] In questa situazione, e nonostante i vergognosi attacchi di ogni tipo subiti direttamente dal loro personale,[6] scuola e università di fatto (grazie al quotidiano sacrificio di quello stesso personale) formano giovani adatti al mercato del lavoro nei paesi in assoluto più progrediti. Mentre il mondo delle aziende in Italia ai giovani non è capace di darglielo, un lavoro. Insomma, forse è il caso di ripensare chi è che non fa bene la sua parte.

NOTE

[1] Qui una delle tante riflessioni critiche sull’argomento: https://temi.repubblica.it/micromega-online/%e2%80%9ccaro-poletti-lei-si-deve-vergognare%e2%80%9d/

[2] Si vedano i periodici rapporti del CNRS francese sulla preponderanza dei ricercatori italiani nelle istituzioni francesi, o altre fonti come le seguenti:

https://cache.media.education.gouv.fr/file/Actions_Marie_Sklodowska-Curie/00/4/Mobilite_internationale_des_chercheurs_et_attractivite_de_la_France_305004.pdf

https://www.lidimatematici.it/blog/2015/04/20/insegnanti-in-fuga/

https://www.repubblica.it/economia/2015/03/23/news/il_laureato_emigrante_un_capitale_umano_costato_23_miliardi_che_l_italia_regala_all_estero-110242042/?ref=HREC1-2

[3] https://www.flcgil.it/rassegna-stampa/nazionale/erc-consolidator-per-giannini-un-successo-ma.flc

[4] Si vedano ad esempio questi documenti e interventi:

https://ilmanifesto.it/universita-al-collasso-nel-2018-oltre-9-mila-docenti-in-meno/

https://www.crui.it/images/documenti/2016/Primavera_Universit__PILASTRI_SU_CUI_FONDARE_LO_SVILUPPO_SOCIALE_ED_ECONOMICO_DEL_PAESE.pdf

https://it.blastingnews.com/lavoro/2017/11/universita-e-ricerca-sono-al-collasso-ecco-tutti-i-numeri-dopo-anni-di-tagli-002166949.html

https://www.facebook.com/ArchiviSpotPolitici/videos/1490016134452460/

[5] Dati OCSE e CRUI. Qui si trovano informazioni recenti sul problema del finanziamento della ricerca in Italia, che è parallelo a quello dell’istruzione: https://www.youtube.com/watch?v=PYAcU-_Zh_A

[6] Non possiamo trattare qui quel sopruso nei confronti degli insegnanti che rappresenta la riforma della “Buona Scuola” imposta dal governo Renzi, né soffermarci sui motivi per cui i dipendenti dell’università sono gli unici in tutto il pubblico impiego a cui sono stati cancellati cinque anni di progressione di carriera. Sull’inimicizia di un’azione politica economicistica verso il mondo della scuola, e sui suoi effetti nefasti, si veda comunque: https://ilfoglietto.it/notizie/editoriali1/5452-in-italia-l-istruzione-segna-il-passo-grazie-a-una-classe-politica-impreparata.html; e sull’analogo per università: https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/cosi-gli-economisti-stanno-distruggendo-luniversita/.


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