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Università e mezzogiorno, due facce della stessa medaglia.

di Francesco Sinopoli e Alberto Campailla

03/09/2015
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ROARS

  and on 3 settembre 2015 at 17:46

In questi anni le politiche premiali hanno pesantemente sfavorito gli atenei meridionali. Come dettagliatamente riporta Beniamino Cappelletti Montano su ROARS “quasi 700 ricercatori prelevati dagli organici delle università del Centro-Sud e trasferiti d’ufficio negli atenei del Nord-Italia nel corso di soli quattro anni”. Complessivamente in 4 anni il Sud perde 281 punti organico, il Centro 60 mentre il Nord ne guadagna 341 con un privilegio particolare per la Lombardia e per le cosidette università speciali come il S. Anna di Pisa, L’IMT di Lucca, l’Università per stranieri di Siena e immancabilmente l’Università del ministro in carica. L’assunto da cui partono i difensori di queste politiche è noto: bisogna sostenere le eccellenze. Un approccio che nasconde la copertura precisi interessi concentrati in alcune aree geografiche ben localizzate. Soprattutto un approccio mistificante perchè l’assegnazione dei punti organico prescinde da qualunque valutazione sulla qualità della ricerca o della didattica ma si basa su parametri di carattere esclusivamente patrimoniale e finanziari, premiando chi aumenta le tasse agli studenti e sfora il tetto massimo previsto dalla legge.

Il rapporto Svimez pubblicato qualche settimana fa, descrive un paese povero economicamente e socialmente, ma soprattutto profondamente diviso tra Nord e Sud dell’Italia. Infatti mentre il Pil nazionale si attesta al -1 %, il Mezzogiorno registra un calo del 9.4 % con le perdite più pesanti in Molise (-22,8%), Basilicata (-16,3%), Campania (-14,4%), Sicilia (13,7%) e Puglia (-12,6%). Come illustra Roberto Ciccarelli nel Manifesto di qualche giorno fa, il Sud è la nostra Grecia, anche peggio se consideriamo quanto in meno è cresciuto negli ultimi anni rispetto al paese ellenico martoriato da austerity e memorandum. Se consideriamo questi dati alla luce dell’ultima analisi dell’Anagrafe del Miur circa le immatricolazioni all’Università, radicalmente scese con punte altissime al sud (45 mila iscritti in meno in 10 anni) in favore a tratti degli atenei del Nord, ci rendiamo conto di come la crisi economica e sociale del Sud è aggravata dalla costante ed al momento irreversibile fuga dei giovani del paese e alla rinuncia da parte degli stessi concepire la formazione come un’opportunità. Svimez, ancora una volta, ha aperto nel paese un dibattito su una parte di territorio abbandonato dalle politiche degli ultimi governi. Dopo i numerosi commenti a questi dati il Presidente del Consiglio è stato costretto ad aprire una “riflessione” nel Pd e nella maggioranza sulla necessità di politiche per il Sud, anche se al momento non esiste una specifica delega per nessun Ministro o sottosegretario su questi temi. Naturalmente colpisce che ciò avvenga dopo aver sottratto le risorse dei fondi strutturali per finanziare gli sgravi sulle nuove assunzioni. L’esito della “riflessione” sul Mezzogiorno viene comunicato dal pirotecnico presidente del consiglio con il solito annuncio di investimenti condito dalla retorica stantia del sud che si piange addosso.

Come se il problema non fosse dell’Italia intera. Come se la questione meridionale non fosse, ancora, una grande questione nazionale.

Guardando al Sud attraverso la lente dell’Università vediamo, quindi, con maggior chiarezza che non di disinteresse si tratta ma di pianificato abbandono. Dal 2008 in avanti, il sistema universitario italiano ha visto complessivamente una sottrazione di 1.5 mld di euro a cui si è accompagnata la legge 240/2010 necessaria a legittimare i tagli pianificati. Queste scelte hanno avuto effetti drammatici sull’offerta formativa, indebolito la capacità di ricerca, cronicizzato il ricorso al lavoro precario pregiudicando la funzione pubblica e la missione istituzionale dell’Università proprio in una particolare congiuntura che avrebbe richiesto la sua completa realizzazione. Si tratta, del resto, di misure che si ispirano a principi affatto originali. E’ l’onda lunga di quel processo neoliberale di ristrutturazione delle agenzie formative e più in generale dei settori pubblici tornato di gran moda nel nostro paese. L’esito di queste politiche è sotto gli occhi di tutti:l’Italia si colloca ben al di sotto della media europea per finanziamenti all’Università, per numero di studenti iscritti e laureati, per numero di ricercatori e dottori di ricerca in rapporto alla popolazione.

La nostra Università vive, quindi, uno stato di emergenza complessiva, ma in questo quadro risulta altrettanto evidente che in alcune zone del paese, il Sud in particolare, questa situazione è particolarmente grave. La ragione risiede nelle diverse condizioni di partenza degli atenei del Sud ma soprattutto a causa degli “indicatori” di valutazione utilizzati per lo stanziamento delle poche risorse disponibili che hanno notevolmente sfavorito gli atenei meridionali. In sostanza in questi anni di riduzione costante delle risorse si è verificato un processo di redistribuzione delle stesse a svantaggio della maggioranza degli atenei del Sud.

Consideriamo ad esempio il caso dei punti organico, che riguardano direttamente la possibilità di un ateneo di assumere e cioè di ricambiare e ringiovanire la propria classe docente. In questi anni le politiche premiali hanno pesantemente sfavorito gli atenei meridionali. Solo quest’anno lo “stacco” di PO tra atenei del Centro Nord e del Sud è di 18 punti percentuali ( calcolati rispetto alla distribuzione che si avrebbe se il tetto massimo fosse stabilito a livello di ateneo e non di sistema).

Caso emblematico è quello della Sicilia che perde ben 29 punti organico e della Campania che si assesta a -19. Quello che si sta verificando è un ridimensionamento selettivo del sistema universitario che sottostà alla precisa logica di concentramento delle risorse in pochi atenei. Questo ha portato ad una assurda competizione per l’accaparramento dei pochi finanziamenti disponibili in cui il meridione resta comunque affossato. Come dettagliatamente riporta Beniamino Cappelletti Montano su ROARS “quasi 700 ricercatori prelevati dagli organici delle università del Centro-Sud e trasferiti d’ufficio negli atenei del Nord-Italia nel corso di soli quattro anni”: all’indomani dell’assegnazione 2015, questo è il travaso complessivo prodotto dai perversi meccanismi dei punti organico”. Complessivamente in 4 anni il Sud perde 281 punti organico, il Centro 60 mentre il Nord ne guadagna 341 con un privilegio particolare per la Lombardia e per le cosidette università speciali come il S. Anna di Pisa, L’IMT di Lucca, l’Università per stranieri di Siena e immancabilmente l’Università del ministro in carica.

L’assunto da cui partono i difensori di queste politiche è noto: bisogna sostenere le eccellenze. Un approccio primitivo ai problemi del nostro sistema di istruzione e ricerca che nasconde la copertura precisi interessi concentrati in alcune aree geografiche ben localizzate. Soprattutto un approccio mistificante perchè l’assegnazione dei punti organico prescinde ampiamente da qualunque valutazione sulla qualità della ricerca o della didattica ma si basa su parametri di carattere esclusivamente patrimoniale e finanziario peraltro premiando chi aumenta le tasse agli studenti e sforando il tetto massimo previsto dalla legge. Gli effetti di queste politiche sono devastanti.

La penalizzazione degli atenei del sud, e non solo, si intreccia, infatti anche con il progressivo indebolimento di molte discipline che in quelle Università vantano scuole importanti. Colpisce coloro che lavorano e colpisce soprattutto gli studenti.

Sacrificare, come sta già avvenendo, un sistema universitario diffuso con una qualità media elevata significa rinunciare ad una rete universitaria che rappresenta una fondamentale infrastruttura a vantaggio di una idea astratta di eccellenza completamente scollegata dai bisogni reali delle persone e del paese.

Le ideologie che sostengono il verbo dell’eccellenza dietro cui cercano di celare il carattere essenzialmente classista di ogni policy suggerita e poi applicata negli ultimi anni al sistema dell’istruzione si nutrono generalmente del contributo, trasversale, di molti media.

Da ultimo il Fatto Quotidiano il cui vicedirettore si chiede, se sia “davvero utile sussidiare pesantemente università che producono disoccupati e formano persone che nessuno sente il bisogno di assumere o retribuire adeguatamente”. Si riferisce, il nostro, alle facoltà umanistiche che non offrirebbero grandi opportunità occupazionali e comportando, comunque, retribuzioni basse per i pochi fortunati che trovano lavoro. Si preoccupa, il nostro, del futuro dei giovani. Lo fa naturalmente per dare il giusto consiglio. Come se il problema fossero le scelte degli studenti e non una domanda da parte delle imprese italiane di qualifiche basse e medio basse conseguenza di una specializzazione produttiva sempre più inadeguata. Come se il problema non fosse una politica di deflazione salariale che ha contributo ad aggravare la crisi in cui ci troviamo.

Dal nostro punto di vista la ricetta è esattamente l’opposto: servono più ricercatori, più offerta universitaria e rifiuto delle categorie suicide di adeguamento alla domanda del mercato e di eccellenza.

Serve costruire un sistema universitario nazionale non competitivo ma cooperativo, partendo dalle aree territoriali dove maggiore è il ritardo nello sviluppo attraverso la creazione di reti reali tra gli atenei per realizzare una offerta didattica integrata.

A ciò si deve accompagnare una progettazione infrastrutturale conseguente e tenendo a mente il ruolo strategico che hanno sempre avuto le università nello sviluppo dei sistemi locali.

In un territorio come quello italiano caratterizzato da forti ritardi e differenze al suo interno l’università deve rappresentare la possibilità di riscatto, in particolare per le aree economicamente più deboli e deve essere messa nelle condizioni di assolvere alle sue molteplici missioni. Didattica di qualità, ricerca di frontiera e applicata, innovazione tecnologica, creazione di opportunità di impiego anche attraverso percorsi di formazione permanente, qualificazione del tessuto produttivo ma soprattutto possibilità di scelte consapevoli per un numero sempre maggiore di persone. Sono indispensabili per questo, finanziamenti adeguati al suo funzionamento, superamento dell’idea assurda e mistificante di premialità, qualificazione dell’offerta formativa, costruzione di un vero sistema di diritto allo studio, nuove assunzioni partendo dai precari che consentono alla macchina ancora di funzionare. A queste condizioni le università e chi nelle università studia e lavora possono contribuire a promuovere un modello di sviluppo sostenibile fondato sulla centralità dell’istruzione nei percorsi di vita, sul lavoro di qualità e su un welfare universale.

(Una versione ridotta di questo articolo e’ stata pubblicata su Il Manifesto il 20 agosto 2015)


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