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Università della Basilicata, quei corsi di laurea con più prof che matricole

Tre iscritti a Geologia, 4 a Matematica, 6 a Chimica, 7 a Filosofia. I numeri della crisi dell’ateneo di Potenza e Matera. La rettrice Aurelia Sole: «I ragazzi s’iscrivono alla triennale ma poi scappano al Nord per fare la magistrale inseguendo il posto di lavoro»

13/10/2018
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Corriere della sera

Orsola Riva

Chissà come dev’essere fare lezione in un’aula dove, quando proprio non manca nessuno, ci sono tre studenti ad ascoltarti. E’ quello che succede in alcuni corsi di laurea dell’università della Basilicata, piccolo ateneo nato sulle macerie del terremoto dell’Irpinia per offrire una possibilità di riscatto ai giovani di una delle regioni più povere d’Italia. Oggi, come molte altre università meridionali, l’Unibas versa in condizioni di grave difficoltà, perché se è vero che la torta dei fondi pubblici si è rimpicciolita per tutti, per loro si è ridotta a poche briciole a causa di un sistema premiale che ha permesso di salvare solo le «teste di serie» condannando gli altri alla retrocessione in serie B. Risultato: chi può, chi ne ha i mezzi, preferisce fare le valigie e andare a studiare al Nord, dove ci sono atenei più prestigiosi e soprattutto un mercato del lavoro meno asfittico. I dati delle immatricolazioni sono sconsolanti: 5 iscritti alla triennale di Geologia e 3 alla magistrale; 4 alla magistrale di Matematica, 6 a Chimica, 7 a Filosofia e Scienze della Comunicazione. Meno studenti che prof, visto che un corso di laurea deve avere almeno 9 docenti per la triennale e 6 per la specialistica.

«Sliding doors»: corsi che chiudono, corsi che aprono

«In seguito alla riforma Gelmini abbiamo dovuto razionalizzare l’offerta formativa riducendo drasticamente il numero di corsi di laurea: erano 42, oggi sono 35. Ma il nostro è un ateneo sano, le iscrizioni da quattro anni sono in ripresa, la didattica e la ricerca sono valutate bene anche dall’Anvur - spiega la rettrice Aurelia Sole -. Certo fatichiamo a reggere la competizione con gli altri atenei che prevedono offerte molto più ampie. E poi c’è il fatto che gli studenti per la magistrale preferiscono spostarsi in città come Milano, Torino, Bologna, dove pensano di avere più chance lavorative». E’ un circolo vizioso: meno studenti ci sono meno corsi possono restare aperti, ma più se ne chiudono e meno studenti arrivano. E così, prima di gettare la spugna, si tentano nuove strade. E’ il caso del nuovo corso di laurea magistrale in Scienze antropologiche e geografiche per i patrimoni culturali (Sage) che l’università della Basilicata ha aperto in collaborazione con la Federico II di Napoli e con gli atenei di Lecce e Foggia al posto del vecchio corso in Scienze del Turismo e dei patrimoni culturali che nel frattempo aveva chiuso. Si sono iscritti in 37, un buon risultato, forse anche trainato dall’effetto Matera-capitale della cultura 2019. «Ma non sempre fare accordi con gli altri atenei è facile, perché se uno ha già un corso di laurea strutturato non vuole spartire le sue matricole con te. Per antropologia ha funzionato solo perché non ce n’era uno in tutto il Sud».

La scivolosa via della seta dalla Basilicata al Kazakhstan

Geologia se la passa decisamente peggio, visto che neanche la triennale riesce più a drenare iscritti. Un paradosso per una regione come la Basilicata ricca di risorse idrogeologiche ma anche caratterizzata da una forte instabilità sismica. «All’inizio - racconta la rettrice Aurelia Sole - era stato un grandissimo successo. Da quando, nel 2010, sono stati introdotti i cosiddetti requisiti minimi per l’insegnamento, siamo stati costretti a chiudere sia il corso magistrale di Scienze e tecnologie geologiche per l’ambiente che quello di Geoscienze e georisorse». E’ rimasta solo la versione in inglese, «Geosciences and georesources», inizialmente pensata in joint venture con un’università kazaka. Una cooperazione che si è rivelata un mezzo bidone, però, perché l’ateneo gemellato non ha mai attivato mezzo corso. Così l’accordo è stato stracciato e ora di internazionale resta solo il nome, mentre la barriera linguistica tiene lontane anche quelle poche aspiranti matricole che tanto farebbero gola all’università. «Ci stiamo chiedendo se chiuderlo ma io devo tenere conto anche dei docenti. Se chiudo un corso di laurea non sempre riesco a ricollocare i professori in altro ambito».

L’università come presidio

I costi del personale ormai si mangiano buona parte dei fondi a disposizione dell’Unibas: 35 milioni su un totale di 40 milioni (30 dallo Stato più 10 dalla regione). «A partire dal 2009 il nostro fondo di finanziamento ordinario è diminuito di 5 milioni: un taglio secco del 15 per cento - spiega la rettrice -.Molte università per compensare hanno alzato le tasse universitarie. Ma noi non possiamo usare quella leva perché più della metà dei nostri studenti (il 60%) ha un reddito sotto i 30 mila euro e uno su tre rientra nella soglia dei 13 mila euro che dall’anno scorso per legge fa scattare l’esenzione totale dalle tasse». Quest’anno però c’è stata un’inversione di tendenza: grazie agli interventi perequativi voluti dall’ex sottosegretario Vito De Filippo (già presidente della regione Basilicata dal 2005 al 2013), le piccole università del Sud come l’Unibas posso tirare un sospiro di sollievo. «La presenza di un ateneo come il nostro è irrinunciabile. Se chiudessimo, sarebbe il deserto totale. Noi siamo un presidio di legalità, cultura, innovazione», dice la rettrice Sole. Ma siamo sicuri che un corso di laurea con 3 o 4 matricole non abbia già mancato questo obiettivo? «Lo Stato deve garantire a tutti, anche a chi è nato nella lontana Basilicata, le stesse opportunità di ottenere un’istruzione di qualità - risponde Aurelia Sole -. Le università del Nord sono per chi può permettersele. Noi siamo qui anche per gli altri».


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