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Unità: You Tube, il ’68 e la sindrome «liceo Sodoma»

Ma certo, che stupidi a non averci pensato prima: sono il permissivismo, il lassismo, l’anarchia dei poteri introdotti dal «sessantottismo» a presentare il conto nella nostra disastrata scuola

04/04/2007
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l'Unità

Toni Jop

Ma certo, che stupidi a non averci pensato prima: sono il permissivismo, il lassismo, l’anarchia dei poteri introdotti dal «sessantottismo» a presentare il conto nella nostra disastrata scuola. Ora che abbiamo rintracciato le cause ideologiche dell’imbarbarimento del clima nelle aule, conviene provvedere alla risposta, possibilmente automatica, da opporre a queste dannate «briglie sciolte» sugli studenti. Può aiutare, intanto, restare nel dominio del macho vocabolario equestre: una bella strigliata agli indisciplinati e redini bene nel pugno di chi deve formare, informare etc. Del resto, è dalla democratica Gran Bretagna che viene il segnale «verde»: Blair - il laburista - starebbe pensando di concedere agli insegnanti una non formale licenza di reazione: offendi, meni le mani in classe? Attento che meno anch’io. Come se il problema di governo della scuola si dovesse finalmente porre come questione di ordine pubblico. E in alcuni casi limite si può persino essere autorizzati a vederla così: in ciascuno di noi c’è un angolo di semincoscienza in cui i pensieri marginali - «vado, lo spacco e torno» - sembrano promettere che per il fenomeno esista una «soluzione», dolorosa ma rapida come un colpo di spada, come una vendetta, come una guerra di rappresaglia.
Diranno che questo minacciato «giro di vite» non è altro che modesta deterrenza, come quella di Bush in Iraq. E la scuola interessa davvero, sotto il profilo strategico, quanto l’Iraq. Poco conta il fatto che la micro-violenza endemizzata nella nostra società non possa che aver permeato anche i comportamenti scolastici, poco conta che la struttura scolastica italiana - e non solo - sia rimasta ancorata a schemi ottocenteschi di amministrazione del potere mentre all’esterno crollavano e ricrollavano le mura di Gerico. A caccia di risposte per «qui e ora», nonché a sostegno di una politica che preveda il ripristino degli «antichi valori», da mesi, sui giornali, va di moda una sorta di check-up «di classe» fortemente orientato. Perché dubitiamo che, come si racconta su You Tube, tutti i nostri figli, ginocchia sotto il banco, chiedano alle loro professoresse se mai si sono «infilate un dito nel culo», come ha raccontato ieri Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Saremo degli inguaribili romantici ma pensiamo che la grande massa degli studenti non denunci comportamenti criminali e nemmeno così amaramente privi di stile e di umana gentilezza. Invece, pare che «Sodoma e Gomorra» si accenda ogni giorno in migliaia di scuole italiane tra il suono di una campana e l’altro.
Con due esemplari e utili conseguenze per chi pensa alla scuola come all’Iraq: affermare, in primo luogo, che davanti alle lavagne è in corso un attacco alla nostra civiltà; lamentare - in seconda battuta - che i docenti sono una accozzaglia di mezze-calzette che vivono la loro professione come una palestra - tra l’altro pagata dallo Stato - di esercizi masochistici. Si pone quindi una urgente e preliminare esigenza di controllo, ovviamente legata alla sicurezza. Così da far scivolare anche sulla scuola quella teoria in base alla quale la sicurezza, bene primario, è figlia di un monitoraggio capillare e armato di risposte adeguate ed esemplarmente, nel caso, violente.
Siamo riusciti a non citare, fin qui, la parola «repressione» ma il momento è venuto: se la scuola è in emergenza, la sola strada in grado di dare risposte puntuali e insieme politiche è la repressione. L’importante è non mettere mai in discussione i modi delle relazioni di potere all’interno del sistema scolastico, e tra quest’ultimo e la società ma approfittare della confusione - che c’è ed è drammaticamente reale - per mettere le mani sulla scuola nel sogno impossibile di riconsegnarla, assieme al resto della società, a un pacchetto di «antichi valori»: ordine e disciplina, silenzio e obbedienza. La cara, vecchia caserma in cui molti di noi si sono formati subendo una violenza istituzionale spacciata come modello educativo inalterabile e ora persino degno di rimpianto. È un obiettivo rispettabilmente reazionario col quale fare i conti; se siamo davvero convinti che non è riarmando il vecchio autoritarismo della scuola che si rimedia al disagio infiltratosi tra banchi e cattedre. E chissà che a un governo di centrosinistra venga in mente di attingere davvero nel pozzo delle idee che maturarono attorno all’incriminato Sessantotto. Se si vuole cambiare aria nella scuola, conviene modificare le quantità in gioco: oggi è ben più difficile di ieri regolare un rapporto di formazione tra un insegnante e una classe di trenta studenti. Tuttavia, se si scende a una decina, ecco che lo scenario si sdrammatizza e la nuova quantità opera, nel sistema, come innesto di nuove qualità: il contatto si umanizza mentre sfuma il problema del «controllo»; la trasmissione di informazioni - sempre comunque biunivoca - acquista efficienza, le contraddizioni conquistano soggettività e possono essere affrontate insieme, fuori dai ghetti psichiatrici o polizieschi. È sicuro che questa moltiplicazione delle classi e degli insegnanti costa. Ma meno dell’Iraq.


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