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Unità: Vincono ancora i figli di papà

Sembra tanto lontana quella «Lettera ad una professoressa» scritta da don Milani

12/02/2007
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l'Unità

Bruno UgoliniSembra tanto lontana quella «Lettera ad una professoressa» scritta da don Milani, un sacerdote fiorentino. Il quale spiegava l’esistenza di una scuola classista, dove i figli degli operai non riuscivano ad emergere rispetto ai figli dei più abbienti. Imparavano meno “parole” e questo era un marchio di debolezza che li accompagnava per tutta la vita. Oggi è ancora così? Non sembra. È facile conoscere figli di metalmeccanici o di edili che hanno potuto studiare, conquistare una posizione.

Il dato nuovo, riguardante le ultimissime generazioni, dice, però, che per molti di loro oggi la ricerca di un lavoro, magari corrispondente agli studi fatti, è come una corsa ad ostacoli. E i primi ad arrivare al traguardo sono i rampolli delle famiglie più benestanti. Questi ultimi partono con una specie di “bonus” che li facilita.

È un aspetto del mercato del lavoro indagato in un’interessante inchiesta pubblicata su «Il Messaggero» a firma di Corrado Giustiniani. Nella prima puntata il giornalista si rifà ad una fonte non accusabile di partigianeria classista: la Confindustria. Scopro così che i figli delle classi dirigenti sono avvantaggiati ben 17 volte rispetto agli altri. Un bel vantaggio. È un primato riservato all’Italia. Perché se si guarda in giro ci si avvede che in Francia i figli di industriali, manager o professionisti, hanno la possibilità di seguire le orme dei padri. Con un vantaggio dieci volte superiore (e non diciassette come in Italia) rispetto a chi è figlio di soggetti sociali comuni, né industriali, né manager, né professionisti. Le opportunità di migliore ascesa per i benestanti scendono poi a sette in Germania e a sei mezzo negli Usa. Paesi con un tasso di maggiore egualitarismo.

Tutto questo in una società dove, come si sa, si vive molto più a lungo. L’età della vecchiaia sembra infinita e così l’età della giovinezza. Corrado Giustiniani, nella sua inchiesta, fa notare come negli anni settanta gli istituti di ricerca considerassero “giovani” coloro che erano tra i 15 e i 25 anni. Ora considerano giovani coloro che stanno tra 15 e i 34 anni. Lorenzo De Medici, se rinascesse, dovrebbe dare un altro senso ai suoi versi: «Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia!». Anche se resta l’incertezza del domani.

Perché questa prolungata giovinezza comporta la lunghissima corsa ad ostacoli cui abbiamo accennato. Secondo l’inchiesta de «Il Messaggero» il presunto giovane arriva alle soglie dei 30 anni e si trasforma adulto dopo aver completato cinque fasi: il completamento degli studi, la conquista di un lavoro continuativo, l’abbandono della casa dei genitori, il matrimonio, la maternità o la paternità. Il problema è che secondo un istituto di ricerca, lo Iard (e qui riemergono le disparità) nel 2004 solo il 22 per cento dei giovani tra i 30 e i 34 anni avevano completato il percorso. Uno su cinque. Mentre tra i 25 e i 29 anni solo il 6 per cento, ovverosia uno ogni 16 tagliano il traguardo.

Ed ecco divampare il fenomeno degli eterni Peter Pan, rintanati in casa, aggrappati al vecchio nido familiare. Giustiniani cita altri dati forniti dalla «European Foundation for the Improvement of living». E salta all’occhio con evidenza la differenza tra l’Italia e il resto del mondo. In Svezia solo il 10 per cento dei ragazzi fra I 18 e 34 anni vive ancora in famiglia. Sono il 15 per cento nel Regno Unito, meno del 20 per cento in Germania, 25 per cento in Francia. E in Italia? Anche qui un vero primato. Ben il 60 per cento di ragazze e ragazzi tra i 18 e 34 anni vive ancora con i genitori. Siamo al primo posto, prima di Paesi come la Spagna e il Portogallo.

Tutto questo a scapito delle professionalità delle competenze, delle “intelligenze” di un Paese. Perché spesso la meritocrazia dei giovani da promuovere è tradotta in termini di “raccomandazione”, clientelismo, servilismo e non in termini di capacità. Ha la precedenza “il figlio di papà” o il raccomandato da questo o quel partito. Scrive Giustiniani: «La Repubblica italiana pare sempre più ancorata al verbo dell’appartenenza e sempre meno a quello delle capacità individuali, del merito, in una parola della competenza. C’è una famiglia mammona che ti avvolge con la sua tutela, pronta a dare torto al mondo intero, piuttosto che a te. Una formazione scolastica e universitaria che non è interessata alla meritocrazia».

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