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Unità: Viaggio nel liceo dove i voti non c’erano e si cercava la realtà

Niente programmi, tempo libero e classi aperte: fu la coraggiosa esperienza dello Sperimentale romano voluto dal dc Misasi

31/08/2008
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l'Unità

Anna TarquiniUn’immagine precisa segna l’inizio di una storia che ora Mariastella Gelmini vuole cancellare, anche simbolicamente, con il ripristino dei voti e del sette in condotta. Il trasloco. Due a due, con i banchi in spalla, poi le sedie, la lavagna. Un pugno di studenti, un pugno di insegnanti e un’idea fortemente sostenuta, guarda un po’, dal ministro della Pubblica istruzione Dc - era il 1970 - Riccardo Misasi. E anche - si dice - su pressione della moglie di Aldo Moro.

Niente voti, niente interrogazioni, niente libri di testo. Niente programmi. Le lezioni partivano dal presente, il cosiddetto sociale. I libri c’erano, ma erano testi universitari. Si entrava dalla finestra e non è una metafora. L’indisciplina, non si definiva indisciplina, ma libertà consapevole. Si chiamava scuola sperimentale e malgrado alcune aberrazioni funzionava. Era nata dai guasti del ‘68, per parafrasare la Gelmini. Fatta dalla sinistra ma, strano a dirsi, non pensata dall’egemonia culturale della sinistra. Quella scuola ha fatto da apripista alle riforme, all’introduzione dei giudizi, alle tesine, a una maggiore libertà di studio. Mariastella Gelmini allora non era ancora nata. E allora gliela raccontiamo noi quella storia.

Dunque si traslocava. Si traslocava «a mano» dal liceo Guido Castelnuovo di Roma guidato allora da Gianbattista Salinari, celebre preside comunista. Una scuola in tempesta, vero centro della contestazione post sessantottina. Era quello il luogo nella capitale dove maggiore era montata la rivolta contro i professori. Arturo Diaconale, che di sinistra non è, lo ricorda ancora nei suoi blog e nelle interviste. Ricorda gli schiaffi a Salinari dal mai perdonato Paolo Serventi Longhi. Bisognava sparigliare. Separare il nucleo della protesta, dividere gli studenti e insieme avere un’idea che riavvicinasse contestatari e professori. Quell’idea l’ebbe un vicepreside, il vicepreside Sciacca, siciliano, furbo, democristiano.

Si racconta che il (poi) preside Sciacca si fosse invaghito di una giovanissima insegnante, Gabriella Marazzita. Trent’anni dopo la voce al telefono è la stessa. «Mi chiamò - ride ancora . Mi convocò in presidenza e disse. “Vorrei che fosse lei a occuparsi di questo progetto. È un progetto sperimentale, veda lei”. La traccia era quella. Niente voti, niente programmi, tempo pieno e gratis per i professori. E tante materie nuove: economia, psicologia, sociologia, tre lingue obbligatorie... Si entrava alle otto e 30, si usciva alle 19. Iniziai a cercare gli insegnanti...». Così nacque il XXII, poi liceo Antonio Gramsci. Era il 1973 e durò sei anni. Il fatto è che proprio in quegli anni, anni di governi Rumor, Andreotti, Moro, veniva approvata la riforma che equiparava tutte le maturità e che di fatto apriva ai figli della povera gente il grado superiore di istruzione, l’università. Il Castelnuovo era a Primavalle, quartiere popolare di Roma, fu il boom di iscrizioni. Povera gente e figli di professionisti.

Flavia Veltroni arrivò al secondo anno di sperimentazione. Il senso e il valore di quella scuola lo ricorda così: «Io la cercai consapevolmente perché avevo letto Mario Lodi, la sua esperienza di insegnante, il giornalino di classe. Mi ritrovai lì. Ecco, quella era la scuola dove chi era arrivato a 14 anni distratto, con solo la passione per il pallone, ne è uscito con una tesina sul Dna, applausi della commissione ed è diventato medico. C’era attenzione per le persone. Nella scuola di oggi invece se per caso inciampi in un momento di difficoltà familiare o semplicemente in un momento di immaturità rischi di perderti per strada, di non farcela più». Il ricordo è dolce e insieme amaro. «Certe volte penso che non siamo mai esistiti, come la nostra esperienza non sia servita a nulla. Eppure ci sono alcune giornate che non dimenticherò mai, io ricordo che andavo a scuola con piacere e invece vedo i giovani che ci vanno con ansia. Certo, tu mi dirai, noi non facevamo nulla... Ma io mi sono divertita tanto...».

Carla Taviani si divideva tra due lavori: la scuola, insegnava lettere, e l’aiuto del marito Vittorio, regista. Il gruppo cineasti era nutrito. Pietrangeli, Amendola, Villaggio... Un giorno - era pomeriggio tardi - era programmata la lezione di cinema. Si presentò uno ragazzo grande, alto. Proiettò il suo primo film autprodotto, «Io sono un autarchico», con dibattito a seguire. Si chiamava Nanni Moretti. «Sì, forse fummo noi lo spunto». Carla Taviani oggi è un po’ delusa. Non attacca il ministro Gelmini: «I voti? Vedremo... Ma la scuola ha bisogno di uno scossone». Ricorda, quattro anni bellissimi: «Il principio era che lo studente avesse voglia e curiosità di venire a scuola. Far sì che la cultura venisse cercata e creata in una sorta di parità di rapporto. Noi lavoravamo in gruppo, con gli insegnanti che studiavano insieme agli studenti. Volevamo contrapporre all’elemento disciplina una libertà seria e motivata. Senza voti, senza esami. Solo autovalutazione e giudizi. Voi vi dovevate promuovere o bocciare insieme a noi. E funzionava. Poi è arrivato il terrorismo e i conti si sono presto fatti. La libertà è diventata libertarismo e la responsabilizzazione menefreghismo». L’altro princicipio cardine era partire dalla realtà, non c’erano programmi. Racconta Gabriella Marazzita che il primo anno, la prima lezione, tutti insieme decisero un tema da studiare. Era Primavalle, si scelse il lavoro minorile. Studenti e professori prepararono un questionario, lo distribuirono nel quartiere, solo dopo con l’elaborazione dei dati e l’analisi delle risposte gli studenti chiesero di prendere in mano i libri. «Dai servi della gleba alla rivoluzione inglese - racconta Marazzita - . Ci piaceva spaziare». Poi ammette: «È vero che la scuola è scaduta in qualità, ma la Gelmini vuol rifare la scuola di chi impara e di chi non impara». Finì con un incendio, un anno dopo la morte di Moro. Non si seppe mai chi diede fuoco alla scuola e quasi tutti, nel corso degli anni, sono tornati a sbirciare dietro il cancello quello spazio dove erano rimaste le macerie. Ma non restano solo i ricordi. «Io quel metodo lo uso ancora oggi - confessa Marazzita - . Programmo con gli studenti, decidiamo insieme il tempo che serve per leggere e studiare un testo, e solo successivamente, quando l’hanno letto, spiego. Sulla base delle loro domande. Anche quando interrogo è così. Li chiamo in 3 o 4, così da fare coraggio anche agli emotivi. Parlano, fanno osservazioni, si danno il voto, poi li giudica la classe. Non sbagliano mai sapete? È matematico».


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