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Unità: Uno spettro s’aggira nella sinistra: la meritocrazia

Benché sempre più invocato anche da attori quali la Confindustria, il merito costituisce un valore cruciale per la sinistra

27/05/2007
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l'Unità

Elena Granaglia

Benché sempre più invocato anche da attori quali la Confindustria, il merito costituisce un valore cruciale per la sinistra. Alcune ragioni sono intrinseche: selezionare gli accessi alle carriere sulla base del merito è parte dell'eguaglianza di opportunità, qualsiasi sia la versione scelta. Inoltre, nella versione sostanziale, cara alla sinistra, promuovere il merito significa migliorare le condizioni di vita dei più svantaggiati, abbassando al contempo le rendite dei più avvantaggiati: più si sviluppano i talenti di chi nasce in condizioni di svantaggio socio-economico, più si amplia il novero dei partecipanti al gioco competitivo e più diminuiscono i premi per chi nasce avvantaggiato.
Sotto la bandiera del merito, non a caso, si sono sviluppate nel 700 le grandi battaglie contro le aristocrazie.
Altre ragioni sono più contingenti rispetto alla situazione italiana. Come difendere un forte stato sociale dedito anche alla fornitura dei servizi, se i fornitori sono scelti sulla base di appartenenze politico-clientelari, automatismi e più complessive norme contrattuali insensibili alla qualità delle prestazioni erogate? Ancora, promuovere i meriti, ad esempio, nella ricerca, potrebbe stimolare gli incrementi di produttività necessari all'incremento delle remunerazioni e, anche per questa via, al sostegno dello stato sociale.
Ciò riconosciuto, se ci si muove in una prospettiva di sinistra, una maggiore riflessione appare necessaria nei confronti sia delle politiche sociali necessarie alla promozione sostanziale del merito sia del ruolo da attribuire al merito all'interno dei più complessivi principi di giustizia sociale.
Rispetto alle politiche da attivare, istruzione, formazione, lotta alla povertà monetaria dei bambini sono gli interventi oggi più invocati. La domanda è: sono sufficienti? Non voglio, ovviamente, auspicare misure così estreme, quali l'abolizione della famiglia, pur invocate da molti sostenitori della meritocrazia sostanziale, gran parte delle ineguaglianze apparentemente naturali (soprattutto nelle abilità cognitive e in altre caratteristiche centrali per il successo nel mercato del lavoro) avendo origine sociale, nella famiglia.
La domanda è semplicemente se, contro opposizioni semplicistiche fra eguaglianza ex ante e eguaglianza ex post, la promozione stessa del merito non richieda una maggiore eguaglianza nella distribuzione delle risorse e nelle più complessive condizioni economiche.
Istruzione e formazione rischiano, infatti, di arrivare tardi, quando gran parte delle ineguaglianze apparentemente naturali, già sono state trasmesse. Similmente, portare il reddito delle famiglie con bambini alla soglia di povertà potrebbe essere del tutto insufficiente.
Passando al ruolo del merito all'interno dei più complessivi principi di giustizia sociale, il rischio è quello di non distinguere con sufficiente nettezza fra una concezione meritocratica dell'uguaglianza di opportunità e quella che, con Rawls, potremmo definire una concezione democratica.
Per la prospettiva meritocratica, il merito costituisce un titolo valido sia per accedere alle carriere sia per legittimare le eventuali ineguaglianze remunerative ad esso associate. La prospettiva democratica, invece, disgiunge i due requisiti, condividendo il primo, ma non il secondo, nell'assunto che il merito non sia del tutto riducibile alla scelta, controllabile dagli individui, di sforzarsi.
Anche nell'ipotesi irrealistica di un pieno contrasto dell'influenza delle disuguaglianze socio-economiche, un quid di disuguaglianza naturale nelle abilità resterebbe irriducibilmente presente. Premiare i meriti significherebbe, dunque, attribuire una rendita a chi nasce più dotato. E perché considerare legittime le rendite dovute alla casualità della lotteria genetica?
Peraltro, come individuare i meriti in un contesto di crescente interdipendenza produttiva e in un contesto di mercato, dove è spesso impossibile sapere se ciò che è premiato è frutto della casualità di avere beni e/o caratteristiche apprezzati oppure della competenza? E' utile ricordare come grandi difensori del mercato, quali Hayek e Nozick, difendevano quest'ultimo non per ragioni meritocratiche, ma per ragioni di libertà e, nel caso di Hayek, per ragioni di benessere.
Nella prospettiva meritocratica, inoltre, il focus della giustizia distributiva è una opportunità: quella di accedere al mercato del lavoro sulla base di una gara competitiva aperta a tutti. Altre opportunità sono difese solo in via strumentale, per realizzare quella opportunità, e/o per fornire puntelli, qualora, per ragioni indipendenti dal merito, si perda il lavoro o non si possa lavorare.
Questa appare una visione riduttiva delle opportunità. Si pensi, ad esempio, ai i 6,5 milioni di lavoratori dipendenti che nel nostro paese guadagnano meno di 1000 euro al mese, già fortunati rispetto ad altri lavoratori più precari. Come è possibile che il reddito guadagnato permetta di acquistare le prestazioni necessarie, dalla sanità all'abitazione alle pensioni, alla cura lasciando uno spazio solo residuale agli interventi per chi non ce la fa? Il che vale anche per redditi largamente superiori. Rimarrebbero, altresì, sottovalute le opportunità non materiali, dal godimento dell'istruzione per il solo piacere dell'arricchimento della mente, al godimento dei beni relazionali e dei beni ambientali, riguardino essi l'ambiente naturale o quello dei nostri spazi urbani.
Infine, da un lato, è certamente vero che accedere alle carriere sulla base dei propri meriti, piuttosto che delle raccomandazioni, contribuisce alla civiltà delle relazioni sociali. Dall'altro lato, però, la concezione meritocratica rischia di minare il senso di appartenenza ad una comune umanità e la propensione a relazionarsi agli altri sulla base dell'eguale considerazione e rispetto. Pur senza condurci al finale del libro sulla meritocrazia di Young, dove il narratore è ucciso da una massa inferocita di individui con un basso quoziente di intelligenza, il rischio è quello, già paventato dai moralisti scozzesi, di favorire la rottura dei legami sociali, inducendo gli individui a ritrarsi dalla «scena comune». Il peso della cultura meritocratica, peraltro, è da molti considerato una variabile importante nello spiegare la minore generosità dello stato sociale statunitense rispetto agli stati sociali europei.
Alla luce di questi limiti, a me pare che la sinistra debba, con nettezza, schierarsi a favore della concezione democratica. Richiami a visioni della vita come gara, ad uno stato sociale il cui obiettivo ultimo sia quello di fare a meno dello stato sociale stesso, espressi nel dibattito pubblico, mi sembrano, invece, riflettere un'oscillazione verso la concezione meritocratica, che rischia di lasciare insoddisfatte dimensioni importanti dell'eguaglianza e delle opportunità.


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