Unità: Università precaria: il caso dei professori a contratto
Gli studenti non percepiscono la differenza tra un professore ordinario e uno a contratto. Quest’ultimo invece sì. Sulla propria pelle.
Roberto Carnero
In un’intervista di Roberto Rossi (su l’Unità di domenica) il ministro del Lavoro Cesare Damiano ha annunciato che, dopo la partita delle pensioni, il governo Prodi si impegnerà per risolvere l’annoso problema del precariato nel mondo del lavoro. Vorremmo richiamare l’attenzione del Ministro su una particolare forma di precariato, di cui poco si parla, quella dei “professori a contratto” delle Università italiane.
Facendo innanzitutto una precisazione, utile a sgombrare il campo da equivoci diffusi. Quando parlano di «precari dell’università», i giornali fanno spesso una grande confusione. In questa definizione generica finiscono indifferentemente diverse figure. Ci sono innanzitutto i dottorandi di ricerca: studenti di corsi triennali finalizzati a formarli al lavoro di ricercatori, una professione che però solo un’esigua percentuale di loro riuscirà a svolgere, vista la cronica mancanza di posti. A rigor di logica, nel loro caso non si può parlare di precariato, poiché non hanno un contratto, ma semplicemente seguono dei corsi. Poi ci sono gli “assegnisti di ricerca”, cioè i titolari di «borse di studio per collaborazione ad attività di ricerca», con contratti annuali o biennali, rinnovabili una sola volta. Costoro portano a casa uno stipendio mensile di circa 1000-1200 euro (a seconda delle sedi), ma sanno che dopo qualche anno il loro lavoro finirà.
Coloro che stanno peggio di tutti sono però i “professori a contratto”. Mentre gli assegnisti (che ricevono uno stipendio mensile) svolgono mansioni di assistentato, i professori a contratto sono docenti a tutti gli effetti, titolari di corsi regolari, fanno lezione, fanno esami, seguono laureandi, sono relatori di tesi. Cioè hanno esattamente gli stessi obblighi didattici di un professore ordinario (cioè di un docente di ruolo, assunto con contratto a tempo indeterminato). Peccato che spesso guadagnino in un intero anno meno di quello che un ordinario guadagna in un solo mese. Attenzione: non si tratta di un’iperbole, è la dura realtà dei fatti. I professori a contratto, infatti, non hanno uno stipendio mensile, ma sono pagati a ore di lezione (e nel numero delle ore non vengono conteggiati esami, tesi, ore dedicate alla ricerca, ecc.), ricevendo (in un’unica soluzione una volta all’anno!) un forfait spesso irrisorio. La cifra può variare dai 4.000 euro lordi all’anno ai 1.500, dagli 800 ai 300, a seconda delle sedi. Ci sono università che danno contratti di 60 ore di lezione (un corso annuale completo) a euro 1. Sì, proprio “uno”. Un pagamento neanche simbolico, neppure un rimborso spese. Il sociologo del lavoro Domenico De Masi, dell’Università “La Sapienza” di Roma, ha calcolato che negli atenei italiani il 30% degli insegnamenti attivati è coperto da docenze a contratto (e in alcuni poli ammontano addirittura a più della metà dei docenti). Il che significa che se, come sarebbe comprensibile, i professori a contratto decidessero di mollare la spugna, la didattica dei nostri atenei si bloccherebbe all’istante.
Ma come si è arrivati a questa situazione? Il tutto ha inizio negli anni 80, quando si introdusse la possibilità di chiamare, tramite contratto, alcuni docenti esterni all’università per tenere cicli di lezioni. Si trattava allora di professionisti di chiara fama, magari esperti di materie molto specifiche per le quali non si trovavano, all’interno dell’università, le necessarie competenze. Poteva essere - poniamo - un ingegnere esperto della meccanica delle macchine tessili oppure un ambasciatore africano che veniva a parlare delle istituzioni del proprio Paese. Il fatto che il pagamento fosse poco più che simbolico poco gli interessava, poiché questo professore a contratto aveva già il suo bello stipendio. Dall’incarico di insegnamento lui acquisiva prestigio, l’università nuove conoscenze.
Negli ultimi anni però si è assistito a un abuso vergognoso di questi contratti. Cresciuto in seguito alla riforma Berlinguer-Moratti il numero degli insegnamenti e nell’impossibilità di bandire concorsi per cattedre effettive (a causa dei blocchi delle varie finanziarie, della sempre maggiore scarsità di fondi allocati al mondo della ricerca, ecc.), gli atenei hanno allargato il ricorso ai contratti anche per materie per così dire curricolari, cioè per insegnamenti prima dati a cattedratici “strutturati” (ovvero di ruolo).
Ma chi glielo fa fare a questi professori a contratto di lavorare per una manciata di euro all’anno? Spesso, oltre che la passione per questo lavoro, in loro c’è la speranza di una futura assunzione nei ranghi: ci si sacrifica, sperando in tempi migliori, sapendo che l’università italiana è fatta in modo che se uno se ne va è difficile che possa poi rientrare. C’è però un altro problema. Chi può permettersi di lavorare pressoché gratis? Chi è benestante di suo oppure chi è disposto al sacrificio di fare un altro lavoro, quello “vero”, con cui vivere, al quale aggiunge l’università. Solo che in questo modo la qualità dell’insegnamento - che richiede tempo per fare ricerca, per preparare le lezioni, dedizione agli studenti - rischia di essere scarsa. Bisogna che il governo consideri questo problema e che vi ponga prestomano.
Gli studenti non percepiscono la differenza tra un professore ordinario e uno a contratto. Quest’ultimo invece sì. Sulla propria pelle.