Unità: Università «libere» da docenti
La Corte dei Conti, al momento, ha bloccato i decreti del ministro Mussi che introducevano alcune importanti innovazioni nel sistema didattico universitario
Giunio Luzzatto
La Corte dei Conti, al momento, ha bloccato i decreti del ministro Mussi che introducevano alcune importanti innovazioni nel sistema didattico universitario: e li ha bloccati proprio perché le introducevano. È una vicenda grave in sé, e che in termini più generali dimostra quanto sia difficile, per le complicità di cui dispongono taluni ambienti accademici, ogni intervento riformatore in questa area. Una prima questione riguarda la proliferazione dei corsi di studio, che globalmente non ha raggiunto quei valori aberranti di cui talora si è detto, ma che in specifici casi è indubbiamente avvenuta. I decreti hanno stabilito che almeno la metà dei crediti previsti per gli insegnamenti di ogni corso (si noti, la metà, non tutti!) devono essere coperti da professori o ricercatori di ruolo; con ciò si evita che manchi al corso il carattere universitario, cioè scientifico, e al contempo si evita che gli atenei esagerino nell’istituire percorsi formativi per i quali non hanno sufficiente docenza.
La Corte obietta che il decreto «non dà contezza - sic! - della disomogeneità delle istituzioni universitarie, le quali si distinguono in statali e non statali (comprese le telematiche)». E precisa che per le prime il vincolo va bene, per le altre no; infatti le università «libere» possono coprire gli insegnamenti anche con contratti affidati a professori delle università statali, grazie a un decreto del 1980.
Ora, nel quarto di secolo trascorso si è dato corso, in Italia come nel mondo, a una maggiore autonomia delle università, che inevitabilmente implica concorrenzialità; vi sono forse dirigenti tecnici in organico alla Fiat che «a contratto» aiutano lo sviluppo delle vetture Renault? Effettivamente, alcune università hanno cominciato a non dare ai propri docenti l’autorizzazione che è necessaria per insegnare in altri atenei; ma sono ancora casi rari, come è comprensibile visto che gli organismi accademici che dovrebbero negare l’autorizzazione sono composti dai colleghi... La Corte dei Conti dimentica di rilevare che la norma del 1980 precisa comunque che il ricorso a docenti statali può avvenire «in casi particolari ed eccezionali». Ho voluto perciò prendere contezza di questi casi eccezionali. Per comprendere il significato dei numeri che seguono, il lettore ricordi che ogni corso di studio (Laurea o Laurea Specialistica) ha dai venti ai trenta insegnamenti; e che a livello nazionale il numero medio di docenti è all’incirca nove volte superiore a quello (già considerato eccessivo) dei corsi di studio.
L’Università Kore di Enna, di recente istituzione, ha un record: con 23 docenti (tra professori e ricercatori) ha attivato 13 corsi di studio. Ma altre, di più antico insediamento, non sono molto lontane; la Lumsa (Maria Santissima Assunta) di Roma ha 20 Corsi con 63 docenti, l’Istituto Suor Benincasa di Napoli con 68 docenti ne ha 19. In entrambi questi atenei 9 dei corsi sono lauree specialistiche, quelle che dovrebbero richiedere un forte contatto con la ricerca scientifica avanzata; e quale contatto può esserci quando il rapporto tra numero di studenti e docenti si colloca tra 117 e 154, mentre il dato nazionale è 28 (ed è già tra i più alti nel quadro europeo)? Se questi sono i casi particolarmente clamorosi, si verifica comunque che la quasi totalità delle università non statali copre con propri docenti una percentuale minima degli insegnamenti.
Quanto alle università telematiche, il non vincolarne i corsi a un minimo di docenza sarebbe motivato dal fatto, ovvio, che «non richiedono la tradizionale lezione frontale». È ben noto, invece, che proprio per le loro modalità didattiche richiederebbero una grande interazione, telematica appunto, con docenti; il prototipo storico, la Open University inglese, ha sempre avuto uno staff quantitativamente oltre che qualitativamente di primo ordine. Delle undici telematiche italiane, la «Guglielmo Marconi» ha dieci docenti, la Tel.M.A. uno, le nove altre zero (sì, zero).
L’altro tema che cade sotto gli strali della Corte è quello relativo al numero di esami. Si rileva, e nessuno potrebbe obiettare, che vi sono differenze tra diversi tipi di corsi di studio e di insegnamenti; infatti il decreto, a differenza di ipotesi precedentemente formulate, non impone che ogni esame debba riferirsi a un numero minimo di crediti fissato omogeneamente. Si lascia cioè alle università la più ampia possibilità di differenziare insegnamenti più impegnativi ed altri meno, con l’unico vincolo sul totale delle prove: ci si è cioè ricordati che le indicazioni europee, il «processo di Bologna» al quale l’Italia partecipa, raccomandano di passare dalla logica centrata sull’insegnamento a quella centrata sull’apprendimento. Quale solido apprendimento ci può essere in un percorso costellato da un miriade di prove dai contenuti parcellizzati?
Le norme prevedono che il ministero replichi alle osservazioni della Corte, e speriamo che le repliche la soddisfino. Ma è anche previsto che, con delibera del governo, i pareri della Corte possano essere superati: se una maggioranza è convinta del proprio riformismo lo dovrà fare.