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Unità: Università: la riforma va potenziata, non cancellata

problemi di qualità nella formazione, e altre difficoltà, esistono: si tratta di individuarne le cause vere, per suggerire i rimedi

22/06/2007
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l'Unità

Università: la riforma va potenziata, non cancellata

Giunio Luzzatto

Qualche giorno fa Pietro Citati, su Repubblica, ha affermato che le università italiane sono pessime, che il disastro è dovuto alla riforma Berlinguer di sei anni fa, e che «a partire da allora le leggi ministeriali hanno costretto gli studenti a studiare il meno possibile, e soprattutto a non leggere libri». Lo stesso giornale ha pubblicato poi una lettera di risposta di Luigi Berlinguer e una contro-lettera di Citati. In quest'ultima, l'autore ironizza sulle statistiche portate da Berlinguer e cita come documentazione un paio di casi singoli di sua conoscenza. Non varrebbe perciò neppure la pena di polemizzare con lui se non fosse oggettivamente esatto che problemi di qualità nella formazione, e altre difficoltà, esistono: si tratta di individuarne le cause vere, per suggerire i rimedi. Fermo restando che le statistiche sono importanti, e che si sono comunque ottenuti alcuni risultati significativi: primo, evitare di tenere persone all'università per molti anni senza consentire a due terzi di loro di concludere gli studi. Le «leggi ministeriali» (espressione molto sciatta) non solo non hanno costretto gli studenti a non studiare, ma avevano dato alcune precise indicazioni atte a tenere alto il livello degli studi. La riforma didattica del 1999 dispone che i corsi di laurea «definiscono le conoscenze richieste per l'accesso», le verificano e «se la verifica non è positiva vengono indicati specifici obblighi formativi aggiuntivi da soddisfare nel primo anno di corso». Dispone anche che per l'eventuale successiva iscrizione a una laurea specialistica venga verificata «l'adeguatezza della personale preparazione». Raramente, anzi quasi mai, le Università hanno applicato queste regole. Quanto ai contenuti del curricolo, il decreto ha solo prescritto che lo studio complessivo richiesto sia tale da consentire a uno studente in possesso di una adeguata preparazione iniziale e correttamente impegnato di concludere il percorso nel tempo previsto. Sono le Università che in molti casi hanno frantumato eccessivamente gli insegnamenti, inducendo a uno studio sbrigativo e superficiale su ognuno di essi; va però rilevato con forza che non ovunque è stato così, e che sono numerose le situazioni nelle quali si è preferito puntare su un limitato numero di discipline fondanti, assegnando ad esse un numero di «crediti» alto a sufficienza per consentire una preparazione solida.
Anche la sottovalutazione del titolo di laurea, che comporta una eccessiva tendenza a proseguire gli studi nella laurea specialistica, è stata in parte determinata da atteggiamenti di illustri accademici: è difficile che altri considerino significativo un titolo se chi ne è responsabile lo denigra. Questi sono i problemi veri da affrontare. Proprio da pochi giorni è in vigore un decreto Mussi che ritocca quello del 1999: con la limitazione al numero degli esami una delle questioni sopra ricordate dovrebbe trovare soluzione. Molto più in generale, esso impone agli Atenei un ripensamento autocritico dell'intera attuazione della riforma didattica (per alcuni punti, anch'essi già richiamati, mancata attuazione); la parola d'ordine deve essere una maggiore collegialità. L'autonomia degli Atenei come istituzioni è cosa ben diversa da una sommatoria di individualismi dei singoli professori.
La Repubblica ha pubblicato anche una lettera di consenso a Citati, che aveva irriso al fatto che un dottore di ricerca «non possa insegnare nei licei a meno di seguire altri quattro semestri di carattere pedagogico»; una ricercatrice universitaria che per motivi personali vuole lasciare la sua sede universitaria protesta perché non le viene dato un posto di ruolo in una scuola nella regione da lei prescelta. Un tempo vi era effettivamente una norma che garantiva una cattedra nei licei agli assistenti universitari che non riuscivano a conseguire la libera docenza. Per avere nella scuola secondaria docenti preparati e motivati, e non persone che vi arrivano in stato di necessità, è positivo che ciò non accada più. L'insegnamento è una professione, e per esercitarla occorre una preparazione specifica non solo sui contenuti disciplinari, ma sulle tematiche psicopedagogiche generali e sulla didattica disciplinare. Oggi ciò è ancora più vero che in passato, a causa delle difficoltà ambientali nelle quali è costretto a operare un insegnante: per educare i ragazzi, e non solo istruirli, occorrono competenze diverse da quelle di un ricercatore che opera nel suo laboratorio. Anche su questo punto, alla fine degli anni '90 si è iniziato a fare qualcosa; si tratta di migliorarlo, non di cancellarlo.


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