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Unità: Una maturità da 100 ma a cosa mi serve?

Tanto studio per non sapere niente

23/09/2007
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l'Unità

«Mi è già successo, dal giorno degli esami, di sognare la scuola. Qualche volta il sogno somigliava a un incubo, per screditare il mio entusiasmo, per rigettarmi indietro nell’ansia di una prestazione tutta ancora da legittimare: si era saputo che il mio vero voto, infatti, non era 100 ma 34. Meno perfino del minimo possibile. Così, una compagna che si lamentava del suo 85, nel sogno mi incalzava, rancorosa e vendicativa: visto che avevo ragione? Ora si sono scoperti gli altarini. Sembrava, insomma, che tutti sapessero ciò che intimamente mi ero tante volte ripetuta: quel 100, io, non lo meritavo... ».
«SONO FATTA COSÌ Non sono mai convinta di far bene, mi dicono brava, ma forse esagerano, anche se ho preso 100 alla maturità ma se mi guardo indietro mi sembra di aver perso tempo: tutto così frammentario, dispersivo. Quali reali conoscenze - oggi - dovrei possedere?»
S
embra che gli esami “ritornino”, quindi, con la voce di grilli parlanti, che parlano dentro e fuori di sé...
«Perché io sono fatta così. Non sono mai convinta di far bene e ho sempre bisogno di certezze intorno a me, e anche quando mi dicono "brava" mi chiedo se non esagerano, magari per compiacermi. E comunque, sogno a parte, pare proprio che il 100 io l’abbia preso, anche se, veramente, credo che non mi servirà a niente. Non che speri in qualcosa di particolare, non so, una borsa di studio, un’offerta di lavoro, ma a volte mi chiedo perché tanta fatica, perché “valutarci” se poi il nostro “merito” vale così poco. Della scuola, degli anni trascorsi, devo essere sincera, non mi rimane granché. E se tornassi indietro penso che cambierei indirizzo. Se guardo al passato mi sembra di aver perso tempo: tutto così frammentario, dispersivo. Quali reali conoscenze, oggi, dovrei possedere? Quale la mia formazione? Possibile che, esaurito un corso di studi, la sensazione sia quella di “non sapere niente”?»
Ma non è una sensazione solo interiore. Il “gioco dell’oca” della nostra società costringe spesso i ragazzi alle “ripartenze”.
«Nell’attesa di momenti migliori, mi adatto a fare un lavoretto che mi ha procurato una mia vicina di casa. Una “ragazza” di quaranta anni, un tipo buffo e divertente che si arrangia in mille modi e che tra l’altro, per campare, fa la badante e la tassista delle vecchiette. Con lei accompagno due terranova a fare la passeggiata della mattina in pineta. Prima veniva con noi anche il loro padrone, ma adesso preferisce restare a casa. Un lavoro così. Strano forse, ma in fondo anche divertente. Nei fine settimana, invece, sono impegnata in un chiosco alla spiaggia libera attrezzata, una piccola capanna di legno dove preparo e servo panini e insalate greche o alla nizzarda, quest’anno molto richieste. C’è gente di tutti i tipi, soprattutto giovani, ragazzi come me, niente di particolare per il resto, tranne forse la moda degli stivali sulla spiaggia che ho visto indossare ad alcune ragazze. E poi i tatuaggi: se ne vedono dei più fantasiosi. Oltre ai soliti tribali, mi ha colpito un ragazzo che aveva trasformato il suo corpo in un’opera d’arte. Non aveva più un solo angolo vuoto. La Gioconda dietro la schiena, Dante sulla gamba, Leonardo sul braccio, sul collo la scritta “Bastian Contrario”, sul petto una rondine con le ali fasciate. E poi, ancora, una crocerossina con la testa mozzata, un omino sulla vespa, e la Creazione di Adamo sulle braccia, in modo tale che quando si avvicinano il dito del Creatore finisce quasi per toccare quello del Primo Uomo, come nell’affresco di Michelangelo».
Il lavoro, quindi, si è trasformato in “lavoretto”. Lessicale flessibilità...
«La sera, spesso mi capita di uscire con gli amici. Di rado andiamo in città, a Testaccio o al Centro. Più di frequente ci si incontra al pub sotto casa, e si discute due, tre ore del che fare, così, sciattamente, finendo per non fare nulla. Tutti si lamentano: "che ci sto a fa’ qui?", ma senza convinzione, e tutti si ritrovano nello stesso posto, alla stessa ora, con la stessa irresolutezza, quasi fosse un gioco, un rito pigro e frustrato, del quale comincio a essere stanca. Talvolta mi vedo rispecchiata nei loro comportamenti e ho paura. Conosco tanti che a trent’anni vagano senza sapere che fare. Mi sembrano come vuoti… svuotati senza esser stati mai riempiti di niente. Non si fanno domande… si accontentano di ciò che sono, ma sono sempre scontenti di quello che fanno, e finisce che stanno tutto il giorno a farsi le canne, insieme, ma non perché sono veri amici, in realtà non hanno legami forti, stanno insieme così, perché un giorno gli è capitato di conoscersi... È per questo che ho paura di svegliarmi, adulta, e scoprire di non aver concluso niente. È proprio l’idea del futuro che mi terrorizza. Il futuro nel quale non riesco a vedere che… il buio più completo».
Il futuro. Ad esempio la prosecuzione degli studi. L’ambizione sostenuta dalla qualità e dal rendimento del curriculum di studentessa, che si scontra con il muro dei costi.
«Vorrei iscrivermi all’università, mi piacerebbe Biologia, o Lingue Orientali, ma non sono sicura che lo farò. Fosse solo la durezza dello studio, le lunghe ore da trascorrere sui libri, non avrei esitazioni, ma a spaventarmi sono i costi, il dover dipendere ancora per anni dalla mia famiglia, che certo sarebbe disposta a fare altri sacrifici per sostenermi. Perché credono nelle mie possibilità e dicono che posso farcela. Ma io vorrei presto avere una casa tutta mia, la mia indipendenza, la gestione libera degli spazi, del tempo. Ed è così difficile conciliare il lavoro e lo studio...».
I figli che rinunciano ai sogni. E i padri?
«Ultimamente mi vedo con un ragazzo che suona in un gruppo. Non è come gli altri, non passa il tempo davanti al pub o al muretto, con la birra in mano, a chiedersi che fare. È una bella persona, con la quale riesco a parlare di tutto. Anche delle cose che non vanno. Mi ha raccontato che di recente ha suonato a Roma in una villa privata, sulla Cassia. “Non puoi capire lo schifo”, mi ha detto. «È entrato uno con un pacco così di cocaina e sono stati tutto il tempo a pippare, la offrivano anche a noi che suonavamo, salvo poi alle cinque della mattina fare storie per pagarci". Questi signori della villa parlavano delle ragazze con volgarità, allo stesso modo di oggetti da scambiarsi, un po’ come la coca che sniffavano. Noi ragazzi siamo spesso considerati "fumati", e qualche volta lo siamo, ma non è che ci vengano begli esempi da quelli più grandi. Anzi... L’altro giorno, al pub ho incontrato un uomo di circa cinquant’anni, completamente ubriaco. Parlava da solo, sragionava, e a un certo punto mi fa: “Ma tu di chi sei figlia?” Aveva conosciuto mio padre. Che tristezza scoprire come ci si può ridurre! Poi è entrato uno nel locale che l’ha preso di petto: “Oh! Ma voi anna’ a casa? Ce sta tu’ mojie che te sta a cerca’”. E lui m’ha guardato e ha scosso il capo, inebetito e disfatto, come se fosse stanco di tutto e cercasse proprio in me un sostegno: Me so’ rotto er cazzo».
luigalel@tin.it


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