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Unità: Un milione di giovani zero scuola zero lavoro

ESCLUSI DA TUTTO Uno degli aspetti più drammatici della condizione giovanile: il vuoto di realtà e d’aspettative di quanti non sono studenti, non sono lavoratori, ma sono un sesto della popolazione tra i venti e i ventisei anni, più donne che uomini e vivono soprattutto al Sud

30/03/2006
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l'Unità

Stanno peggio dei «famigerati» ex co.co.co, peggio dei disoccupati censiti dall’Istat (chi cerca lavoro), peggio dei neolaureati in cerca di opportunità. Sono giovani fuori da tutto: istruzione e lavoro. Vivono in famiglia con reddito zero e prospettive sotto zero. Non studiano, non lavorano, non cercano lavoro. Sono solo sfiduciati.
La cajenna «fuori da tutto».
In Italia i giovani in queste condizioni superano il milione: per l’esattezza 1.187mila nel terzo trimestre 2005 (dato Istat), ben 135mila in più del primo trimestre 2004. Questo plotone di esclusi rappresenta una buona fetta della classe d’età tra 20 e 29 anni (il 16,7%). Di questo milione e rotti i due terzi ha un’età compresa tra i 25 e i 29 anni. Che vuol dire? Sono in fase già avanzata sia per studiare sia per inserirsi nel mondo produttivo. A stare peggio di tutti sono le donne del sud: non sono studentesse, non sono lavoratrici e oggi non sono più neanche tanto mamme, visto che l’età della prima maternità si è notevolmente alzata (28,7 anni nel 2001, si stima 30,8 nel 2010).
A che serve la laurea?
È la parte più svantaggiata del microcosmo giovanile, quella che non viene intercettata praticamente da nessuno, neanche dal sindacato. Non è che i loro coetanei più fortunati - quelli che occupano i vertici della piramide - stiano tanto meglio. L’altro fenomeno che fa dell’Italia il Paese nemico dei giovani riguarda proprio i «migliori», i cosiddetti cervelli, quelli che hanno studiato molto e bene, che si sono specializzati, che hanno fatto master anche all’estero. Ebbene, per loro non c’è spazio nel mondo del lavoro. O meglio, ce n’è di meno che per chi si è diplomato. Come mai? Semplice, lo Stato non assume più e le imprese non puntano sull’innovazione. Stando a un’inchiesta Unioncamere, la maggior parte delle imprese punta ad assumere personale non qualificato, in larga parte con licenza media. Un sistema produttivo che non punta sulla ricerca non ha bisogno di specializzati. Servono solo «braccia» che possibilmente costino poco e che vadano a casa quando è necessario (per i datori di lavoro).
Donne meridionali: ultimo posto
Tornando nel girone dantesco dei «fuori da tutto», spicca in questo segmento l’arretratezza della condizione femminile. «Anche a livello giovanile si rileva una forte differenza di genere - spiega Linda Laura Sabbadini, direttore centrale Istat - penalizzante per le donne, con una particolare criticità per le donne nel sud, che sono la gran parte di giovani che non lavorano, non cercano lavoro e non studiano». Per la verità la «questione femminile» a sud non riguarda solo le giovani generazioni. «Negli ultimi tre anni - continua Sabbadini - il numero di donne occupate è diminuito di 138mila unità. In questo modo ci si è “mangiati” più della metà dell’aumento occupazionali femminile della seconda metà degli anni ‘90».
Resta comunque il Mezzogiorno il posto peggiore per chi è donna e giovane. Anche se i dati medi nazionali non inducono affatto all’ottimismo per il futuro degli «juniores». Considerando la classe d’età tra i 15 e i 24 anni il tasso d’occupazione (cioè il rapporto tra gli occupati e tutta la popolazione di quella fascia) è sceso di 3 punti percentuali tra il terzo trimestre 2004 e lo stesso periodo del 2005. Tra gli uomini la quota di occupati è al 29,9%, mentre tra le donne è al 20,5: quasi 10 punti di differenza. L’andamento storico segnala una perdita di occupazione giovanile di 1,8 punti percentuali nel ‘94 (Berlusconi uno) rispetto all’anno precedente, perdita più che dimezzata (ma resta sempre il segno meno) nel 1995 (-0,7%). Il ‘96 è anno di equilibrio, mentre l’occupazione giovanile torna a crescere dal ‘97 al 2001, con l’unica eccezione del ‘99 (-0,2%). Dal 2002, inversione di tendenza, fino al crollo del 2005. Ma i numeri secchi dicono ancora troppo poco dell’universo giovanile. «Non solo il tasso d’occupazione è basso - conclude Sabbadini - In più c’è il fatto che un terzo dei giovani occupati è precario. Nel terzo trimestre del 2005 più di un terzo dei giovani occupati di 15-24 anni è precario, mentre si arriva al 43% per le donne». Insomma, la cosiddetta flessibilità si scarica tutta sui più giovani e sulle donne.
Dove il precario è fortunato
Anche qui la geografia non è indifferente. Dalle statistiche emerge un Centro molto svantaggiato: 46% di giovani uomini precari, e 48,8% di donne. E il Sud? Mostra livelli di precarietà più bassi (ma sempre a quota 33%) perché i veri problemi sono l’inattività e i tassi di disoccupazione (la percentuale di chi è in cerca di lavoro sul totale della popolazione di quella fascia d’età) altissimi. Da Roma in giù all’inizio della carriera non si trova neanche il lavoro precario. Nel 2004 il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni a Sud era pari al 36,8% ed arrivava al 44,4 per le giovani donne. Se la quota di chi cerca lavoro è a questi livelli, si capisce perché a un certo punto si smette anche si decide di cercare. Se si passa alla fascia d’età successiva (tra i 25 e i 34 anni), quasi un giovane su cinque a sud è precario (a nord ci si ferma al 12,5%). Naturalmente va peggio per le donne meridionali: qui si arriva al 27,8%.
Meglio andare all’estero
E chi ha studiato? Purtroppo raccoglie poco anche se ha seminato molto. Secondo un’indagine AlmaLaurea (un consorzio che associa una trentina tra i maggiori atenei italiani) la precarizzazione ha coinvolto quasi la metà dei neolaureati italiani in pochi anni, nonostante il fatto che la stragrande maggioranza dei laureandi, cioè l’80%, continua a sperare in un lavoro a tempo indeterminato. Insomma, preferisce la stabilità alla flessibilità. Ma la precarietà è già una fortuna. A tre anni dal conseguimento della laurea un terzo dei giovani è ancora in cerca d’occupazione. Se si considera che l’età media a cui ci si laurea sta tra i 27 e i 28 anni, si capisce che la prima «vera» occupazione spesso arriva dopo i 30 anni. Tardissimo.
Il precariato è lo spauracchio anche dei plurispecializzati che intraprendono la strada della ricerca. Oggi in Italia a fronte di circa 60mila docenti immessi nei ruoli (tra ordinari, associati e ricercatori) ve ne sono altri 50mila che hanno contratti di collaborazione: il rapporto è quasi di uno ad uno. Con una piccola me decisiva differenza. I primi, quelli inseriti, sono in media più vecchi. I secondi hanno un’età media attorno ai 37 anni. Insomma, anche qui la flessibilità è tutta sulle spalle dei giovani. Inoltre tra il ‘98 e il 2003 i posti «regolari» per i ricercatori (ovvero, i più giovani) sono aumentatoi dell’1%, quelli per gli associati del 15% e quelli per gli ordinari del 30%. Il che vuol dire che per cinque anni si è andati avanti sostanzialmente con passaggi di carriera e non con nuove assunzioni. Chiuso il percorso della carriera universitaria, altrettanto angusto quello della ricerca presso i privati. «In Italia si destina alla ricerca circa l’1% del Pil - spiega Augusto Palombini, presidente dell’associazione dottorandi italiani - Di questo, i due terzi sono di enti pubblici e soltanto un terzo di imprese private. È il contrario di quanto avviene all’estero. Se da noi si chiudono i rubinetti del pubblico, restano pochissime strade. È chiaro che chi può se ne va all’estero». Si prepara una «Sorbona» anche da noi?

di Bianca Di Giovanni/ Roma


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