Unità-Un Dpef pieno di pericoli
Da l'Unità del 29.07.2003 Un Dpef pieno di pericoli di Laura Pennacchi Il Documento di programmazione economico-finanziaria, già evanescente nelle successive (numerose) version...
Da l'Unità del 29.07.2003
Un Dpef pieno di pericoli
di Laura Pennacchi
Il Documento di programmazione economico-finanziaria, già evanescente nelle successive (numerose) versioni iniziali in conseguenza delle cure dimagranti inflittegli dalle liti nella maggioranza, è uscito sbriciolato dalle audizioni davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato - chiuse dalla testimonianza del governatore della Banca d'Italia - e affronta ora l'esame delle aule. Sarebbe sbagliato concluderne che nel Dpef 2004-2007 vanno viste solo "vaghezza" e "inconcludenza". In effetti, quest'anno il documento propedeutico all'intera manovra di finanza pubblica è, al tempo stesso, "troppo vuoto" e "troppo pieno".
Troppo vuoto, perché non solo è carente la definizione di obiettivi e di indirizzi strategici generali, ma è assente anche l'indicazione di alcuni parametri basilari elementari che la legge di contabilità nazionale, viceversa, impone di quantificare.
In sua vece è presente un singolare gioco elusivo tra andamenti "tendenziali" e andamenti "programmatici". Per esempio: nel caso dello stock di debito è definito l'andamento "programmatico" ma non il "tendenziale", l'opposto accade nel caso più generale del quadro di finanza pubblica per cui è definita una proiezione "tendenziale" ma non un corrispondente conto "programmatico". Il risultato è che, con le severe parole della Corte dei Conti, essendo privi di prospetti dettagliati, confrontabili e analiticamente illustrati nei criteri di costruzione, non è possibile sottoporre i pochi dati che vengono forniti a un "rigoroso riscontro" e, per di più, rimangono "imprecisati i passaggi che, per le singole categorie di spesa e di entrate, consentono di trasformare gli andamenti tendenziali in andamenti programmatici", venendo pertanto a priori vanificato "ogni tentativo di verifica e di valutazione".
Tutto ciò ha una duplice finalità occultativa. La prima consiste nel nascondere il reale peggioramento dello stato della finanza pubblica in ragione del quale l'effettivo indebitamento tendenziale per il 2003 è già stato stimato dal Fmi nel 2,75% del Pil e sembra poter superare addirittura il 4%, al punto che il Governatore Fazio ha prospettato l'eventualità di "misure finanziarie aggiuntive" a quelle che si preparano per settembre. Il Dpef indica un deficit tendenziale del 2,3% - da cui scendere a un indebitamento dell'1,8% nel 2004 con la correzione di circa 16 miliardi di euro che dovrà essere operata dalla Finanziaria - e l'aggravamento rispetto alle ancor rosee previsioni dell'anno scorso, che per la Banca d'Italia è solo per un terzo imputabile al ciclo, viene quasi interamente attribuito alle avverse condizioni economiche internazionali. Indicatori assai significativi del peggioramento finanziario in atto sono il deterioramento dell'avanzo primario (sceso dal 5,5% del 1998 al 3% attuale) e la strisciante caduta delle entrate, per ora mascherata dal gettito dei condoni (sul quale peraltro non viene fornita alcuna stima adeguata) ma a cui i condoni stessi hanno senz'altro concorso, essendo niente altro che premio dell'evasione - come il Fmi non manca di rilevare - la quale, con il provocato radicamento di aspettative di ulteriori condoni, si autoalimenta e dilaga. La situazione è tale che non sembrano sussistere le condizioni nemmeno per l'iniquo scambio "meno spesa sociale/più sviluppo" che il governo ha già iniziato a profilare ai sindacati, le economie di spesa eventualmente realizzabili dovendo coprire da un lato il peggioramento finanziario in atto, dall'altro il concreto esercizio di quelle deleghe che contengono già tutte - dal mercato del lavoro alla previdenza - maggiori ragioni di spesa pubblica (si pensi alla decontribuzione!).
La seconda finalità occultativa è volta da un lato a procrastinare la resa dei conti - di cui abbiamo avuto fin qui solo qualche assaggio - nella maggioranza di governo a settembre, quando sarà presentata la Finanziaria, dall'altro a rinviare il momento della verità con gli elettori, nascondendo loro che scelte pesanti - ci siano o no i disincentivi per le pensioni di anzianità, oltre agli incentivi per rimanere in attività - sono già state fatte. Il Dpef non dice forse testualmente che la previsione relativa agli equilibri di finanza pubblica "sconta gli effetti della riforma del mercato del lavoro, del fisco e della previdenza"? Il ministro Sirchia e il sottosegretario all'istruzione non hanno forse candidamente ammesso alle commissioni competenti che i soldi - mancanti - per la sanità e per la scuola verranno dai tagli alle pensioni? Perché il governo si è ben guardato dall'evocare l'ammontare di risorse generate dal risanamento voluto dall'Ulivo e ora dilapidate dal governo di centro-destra (parla per tutti il caso dell'abolizione dell'imposta di successione come primo atto del suo insediamento) e invece non si è peritato di rasentare il ridicolo proponendo, invece di ripristinare una corretta concertazione, di procedere a una stesura congiunta della Finanziaria con le organizzazioni sindacali?
Dal "troppo vuoto" siamo così condotti al "troppo pieno" che caratterizza il Dpef. Infatti, alla mancanza di analiticità e di precisione sul piano della politica macroeconomica di bilancio corrisponde un eccesso di fulmineità interpretativa sul piano della politica microeconomica per l'economia reale, le cui difficoltà vengono ossessivamente attribuite alla spesa sociale e alle rigidità del mercato del lavoro in una accezione che ora comprende anche la legislazione sulla sicurezza e la tutela ambientale. Alla fine il ministro Tremonti scopre se non il "declino" - a proposito del quale aveva sostenuto che "di declino parlano gli economisti che sanno tutto ma ignorano l'essenziale" - almeno la caduta di competitività, ma dandone una lettura assai rozza che certo non arricchisce la diagnosi e la terapia del governo Berlusconi per l'economia e l'industria italiana. In sostanza viene ribadita la filosofia di fondo a cui si ispira la coalizione di centro-destra e cioè da una parte la tesi dell'incompatibilità tra sviluppo economico e diritti, tra sviluppo economico e protezione sociale, dall'altra una visione dello sviluppo frutto solo di "meno regole, meno tasse, meno Stato". Questa filosofia è alla base della riduzione dei problemi di competitività dell'industria italiana a problemi solo di costo ed è pertanto alla base dell'improvvisa, convulsa evocazione della Cina come unica fonte delle difficoltà delle nostre industrie esportatrici, con toni talmente isterici da richiamare alla memoria espressioni - quali il "pericolo giallo" - che credevamo archiviate.
Viene così sollecitata una interpretazione gravemente distorta della realtà italiana, dove i fattori critici tornano ad essere l'articolo 18, le normative ambientali, il costo del lavoro, mentre non vengono posti sotto i riflettori i veri fattori frenanti quali le limitate dimensioni aziendali e la quasi scomparsa delle grandi imprese, la staticità della specializzazione produttiva (che ci vede presenti soprattutto in settori tradizionali maggiormente esposti alla concorrenza internazionale), la carente capacità innovativa, lo scarso investimento nel capitale umano. Eppure, è proprio qui che l'attenzione dovrebbe essere portata, almeno per ricostruire, al di là del mix di ideologicità e di superficialità che fa velo, i problemi reali. Vorrà pure dire qualcosa che, mentre la produttività del lavoro mantiene valori assoluti sorprendentemente alti, a diminuire decisamente è la "produttività totale dei fattori" - la più importante perché fornisce una stima della capacità di assimilazione del progresso tecnico - per cause che è la Banca d'Italia a individuare nel "progressivo cumularsi di ritardi nella spesa per infrastrutture, nella formazione e nell'impiego di capitale umano qualificato, nell'adeguamento della regolamentazione dei mercati dei prodotti e dei fattori, negli investimenti in ricerca e sviluppo".
Rispetto alle letture rozze e alle interpretazioni distorte di cui è "troppo pieno" il Dpef, le analisi più rigorose - di cui il Dpef è "troppo vuoto" - indicano come cruciale il binomio "investimenti declinanti/specializzazione produttiva statica". I primi hanno fatto registrare negli ultimi anni nel solo campione Mediobanca una diminuzione, a prezzi costanti, del 23% e il dato è ancora più allarmante per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo, la cui situazione configura un vero e proprio disastro. Della specializzazione produttiva tradizionale dell'Italia è il recente rapporto annuale dell'Istat a dire che essa "è in gran parte responsabile del forte rallentamento delle nostre esportazioni".