Unità-Tullio De Mauro-Imparare con lentezza
Beppe Sebaste Si legge con grande piacere il libro-intervista di Tullio De Mauro, a cura di Francesco Erbani, La cultura degli italiani. Come osserva Erbani nella prefazione, il linguista Tul...
Beppe Sebaste
Si legge con grande piacere il libro-intervista di Tullio De Mauro, a cura di Francesco Erbani, La cultura degli italiani. Come osserva Erbani nella prefazione, il linguista Tullio De Mauro "è uno dei rari uomini di ricerca che non si è mai stancato di seguire tutto intero il tracciato della produzione e della trasmissione del sapere: dai punti più elevati della riflessione e dello studio fino all'ordinamento delle scuole per l'infanzia". Anche per questo, dietro il titolo un po' leopardiano (che evoca una certa trattatistica morale, a partire dal Saggio sul carattere degli Italiani) il libro è una miniera di informazioni sulla nostra storia recente, spesso impensata: dalla riforma della scuola (l'unica, a quanto pare, di centrosinistra) del 1962, che istituì l'obbligo scolastico malgrado forti opposizioni nella destra ma anche, ahimè, nella sinistra, al tentativo, sotto il ministero Falcucci, di avviare una nuova riforma che investisse anche i programmi (per esempio, filosofia in tutte le scuole secondarie), che si arenò e lasciò una debole traccia nei cosiddetti "licei sperimentali" che sorsero allora; fino ad arrivare alla controversa vicenda del progetto di riforma di Luigi Berlinguer, ereditato da De Mauro nella sua breve esperienza di ministro. De Mauro non risparmia critiche all'attuale riforma Moratti, in corso d'opera, ma che riporta, tra l'altro, l'obbligo scolastico alla fine delle scuole medie, con scelta a tredici anni del percorso formativo, un po' sul modello tedesco della divisione tra licei e scuole tecnico-professionali.
La scuola non è l'unico contenuto del libro di De Mauro, che spazia invece tra la politica e l'editoria, tra la linguistica e il giornalismo, insistendo soprattutto sul concetto di "cultura di fondo", o di base, indice dell'arretratezza o meno, civile e culturale, degli italiani, e secondo l'Economist indicatore della "creatività economica" di un Paese. Lungo tutto il libro ricorre inoltre un salutare elogio della cultura non umanistica, della cultura come saper fare, quasi un elogio leonardesco del pensare con le mani. E tuttavia, la problematica cruciale della scuola e dell'educazione comprende tutti i temi politici, culturali ed economici della nostra epoca, essendo da quell'esperienza che dipendono le future modalità di approccio culturale e quindi politico della nazione. Si pensi, per fare qualche esempio, al problema dell'analfabetismo primario e "di ritorno" che riguarda una troppo grande parte degli italiani adulti (soprattutto se messi in relazione agli altri Paesi europei); oppure alla crisi della produzione industriale, per la quale da più parti si invoca ogni giorno la famosa "creatività" italiana, nel quadro di un'economia mondiale che si basa sulla conoscenza: da cui la necessità, sancita dal patto di Lisbona dei ministri europei dell'istruzione nel 2001, di una educazione degli adulti, di una formazione permanente, estesa a tutta la durata della vita (long life learning). Lungi dalla retorica produttivistica e convulsa della scuola delle tre "I", una scuola che risponda al bisogno della cittadinanza, secondo un modello di libera e proficua alternanza tra educazione e lavoro, per citare un film appena uscito potrebbe essere impostata sotto l'egida dell'"imparare con lentezza", ovvero imparare a imparare.
Sono infine connessi al problema della scuola l'impatto delle nuove tecnologie della comunicazione e l'interconnessione dei saperi, ma anche la crisi di credibilità, e quindi di democrazia, determinato in Italia ma non solo dallo svilimento del linguaggio, sempre più sottomesso alla sfera della pubblicità. È su questi temi dovevamo incontrare il professor De Mauro già qualche mese fa, all'epoca di una serie di colloqui di "ecologia del linguaggio" (titolati scherzosamente "parli come badi"). Nel frattempo, dalla Francia arrivava la notizia di un appello "contro la guerra all'intelligenza", firmato da oltre centomila intellettuali e artisti che contestavano la miopia di chi disprezza ciò che risulta immediatamente improduttivo agli interessi immediati del mercato liberale, come l'educazione, le arti, il pensiero. Il governo Raffarin aveva soltanto ventilato qualche disegno di legge dal sapore berlusconiano (precarizzazione, tagli alla ricerca scientifica, ipotesi di sottovalutazione della cultura, ecc.). Il colloquio con il prof. De Mauro prende le mosse da quelle questioni.
"Confesso che, nella mia percezione, quella mobilitazione in Francia si appiattiva, forse ingiustamente, sulle reazioni degli intellettuali umanistici ostili a ogni riforma. Oggi la conoscenza del linguaggio è accresciuta, ma pesano altri fenomeni, come la vacuità, che è un problema planetario, dietro a cui c'è la spinta consumistica. Lo sforzo di dare a tutte le persone i mezzi per vivere civilmente funziona solo in un quadro di democrazia sostanziale, non formale. Il tema della formazione lungo tutto la vita è essenziale in questo impegno democratico. Qualche elemento che modera il pessimismo esiste: ad esempio la domanda di educazione degli adulti, sostanziale. Anche nella cultura più "alta" ci sono aspetti interessanti. I nostri grandi lettori, in Italia, lo sono di più che in altri paesi del mondo. E il successo di festival come quelli della letteratura a Mantova, della filosofia a Modena, della scienza a Genova, mostrano una sete di informazione e di discussione diffusa, anche se non ha nessun riconoscimento politico dall'alto".
Posso confermarle il desiderio "gratuito" di conoscenza degli adulti dalla mia esperienza di corsi serali, dove molti allievi sono già diplomati o laureati, ma affollano le lezioni. Eppure il tema dell'educazione resta sottovalutato e isolato nella considerazione dei politici&
"Vorrei richiamare in proposito una cosa molto importante e poco nota che pure sta accadendo in Francia dall'anno scorso, da quando il presidente Chirac lanciò all'intera nazione una grande campagna di "esazione", diciamo così, di pareri, sulla scuola. L'indagine, sviluppandosi da un questionario, ha investito tutti i luoghi della vita sociale, formali e non formali, a ogni livello, dalle istituzioni alle associazioni di cittadini. Il risultato, qualcosa come 1.600.000 testi e opinioni - che ha ora il titolo Le miroir de l'éducation (Lo specchio dell'educazione) - è stato raccolto e interconnesso in rete, con l'impegno di un'apposita commissione guidata da un'alto funzionario del ministero dell'educazione, Claude Thélot, di sintetizzare tutte le richieste sociali. Su questa base un'altra commissione di esperti sta elaborando i provvedimenti che si rendono necessari, dalla scuola pre-elementare ai licei, per consegnare entro breve al governo delle proposte. A sua volta il governo si è impegnato a provvedere con legislazioni in merito entro il 2005. Oltre alla serietà di questo approccio, vorrei sottolineare come l'opinione pubblica abbia reagito bene, e come invece quell'altra opinione pubblica che si identifica negli intellettuali che scrivono sui giornali sia restata in generale ostile, fredda o assente".
Forse gli intellettuali si sono sentiti scavalcati?
"Sì, perché noi umanisti ci sentiamo i depositari del sapere, magari perché abbiamo pubblicato un'antologia dei lirici greci. Il fatto che le lavandaie, i tranvieri, o anche gli ingeneri mettano il naso sulla cultura di base ci fa risentire... Comunque sia, la richiesta unanime è stata che gli insegnanti imparino a lavorare molto di più nel senso della sollecitazione e degli stimoli all'apprendimento da parte degli studenti, cioè sulla voglia di imparare piuttosto che sull'imparare determinate cose&".
Cioè, su un problema più generale e profondo di educazione, un imparare a imparare& A questo proposito, può aiutarci a fare chiarezza su termini come formazione, istruzione ed educazione, che vengono spesso volutamente confusi a seconda delle circostanze?
"Non sono un pedagogista, tuttavia direi che se l'istruzione è un apprendimento formale, di tecniche più o meno codificate, e la formazione è un insegnamento in funzione di qualche attività ulteriore, l'educazione è qualcosa che porta dentro di sé riferimenti a curricula sia formali che informali, ovvero a quell'insieme di cose importanti come progettare, collaborare con altri ecc. che si imparano svolgendo le attività formali; qualcosa, come dice lei, che si comunica insegnando ma che va oltre la cosa insegnata. Oggi invece ci si preoccupa di valorizzare in modo formale per la scuola ciò che deve far parte del curriculum informale, codificando ridicolmente materie a orario come l'educazione sessuale o stradale& In questo senso la nostra Costituzione è un testo importante. Penso soprattutto all'Art. 3, non a caso odiato da alcuni: formare e educare - ma educare è il vocabolo giusto - "a essere cittadini". Oggi, paradossalmente, a questo bisogno sostanziale di educazione - di codici condivisi, di comportamenti, di etica, di saper fare ecc. - rischiano di rispondere di più luoghi come la scuola di spettacolo di Maria De Filippi, o addirittura la malavita organizzata&".
E per quanto riguarda la difesa delle cose "inutili"? Nel suo libro ricorda che la riforma del '62 è passata non grazie ai politici, ma grazie alla grande imprenditoria, che capì quanto un livello formativo più alto nella manodopera fosse un investimento. Oggi non è forse la stessa cosa?
"Certo. Il pedagogista Benedetto Vertecchi ha detto che "c'è bisogno di insegnare cose inutili". Nello stesso tempo ricordo che una delegazione di ricercatori di matematica si è sentita dire dal ministro dell'istruzione: "ma in fondo, che cosa produce un istituto di alta matematica?" Pochi giorni fa, in un convegno sulla creatività a Firenze il tema era come insegnare a fare cose divertendosi. Ciò che è essenziale nella prima formazione. Ma proprio per questo ritengo assurdo pretendere, come vuole l'attuale riforma della scuola, che un ragazzo di tredici anni possa scegliere il proprio percorso formativo. Nelle sue lezioni didattiche, Lombardo Radice spiegava la necessità di un ambiente e un programma unitari fino ai diciotto anni, dicendo che la scuola deve essere "lussureggiante": perché nella scuola e lungo la scuola lo studente cambia, e a ogni scoperta di nuove conoscenze gli si apre un possibile nuovo desiderio di percorsi e di progetti per il proprio futuro. Imporre di definirlo a tredici anni è un delitto sociale. Io ho lavorato nelle borgate, e so che se avessi chiesto a una ragazza adolescente cosa avesse voluto fare, avrebbe risposto la parrucchiera, perché nelle sue condizioni era il top, un sogno& D'altra parte, nel nostro modello sociale, che è poi quello dell'intero Occidente, è indispensabile riqualificare economicamente il lavoro dell'insegnante, oltre che dargli la dignità di una professione con determinazioni autonome, da professionista dell'educazione. Una buona retribuzione è indispensabile per reclutare persone che non solo sappiano bene le discipline e i saperi, ma siano gestori dell'apprendimento delle loro materie in giovani corrotti e distratti dalla vita sociale che si trovano intorno. Un personale di qualità, di cui abbiamo bisogno, non possiamo pagarlo come è pagato oggi. È giusto chiedere uno slancio "politico" agli insegnanti, ma dando loro una prospettiva. Il miglioramento della loro condizione economica è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per ricreare le condizioni affinché si realizzi il piacere di educare".
Lei farebbe ancora il ministro?
"Sì, a condizione che la coalizione avesse già elaborato un programma di interventi mirati a migliorare la condizione della scuola. Qualcosa come un "patto per la scuola", come quello firmato l'anno scorso da un grande numero di intellettuali e insegnanti. Occorre un progetto unitario, ma vedo che stenta a passare, nonostante quel documento. Conservo qualche scetticismo, in mancanza di una spinta generale e condivisa".
C'è un passo, nel libro di Tullio De Mauro, che indica efficacemente questo impegno comune: "elaborare un programma di crescita delle capacità di cultura intellettuale dell'intera nostra società. E questo deve diventare il fulcro della politica italiana (&) È in primo luogo una questione di finanziamenti pubblici nella scuola, nella ricerca, nelle biblioteche. Ma non basta. Occorre una diversa moralità.