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Unità: «Siamo un Paese che non riconosce nessun talento»

Intervista a Ignazio Marino Il senatore chirurgo parla della fuga dei cervelli e della scarsa capacità attrattiva dell’Italia aggravata dalle nuove leggi sulla «sicurezza»

23/08/2009
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l'Unità

FEDERICA FANTOZZI
Professor Ignazio Marino, i campus americani sono pieni di ricercatori indiani e cinesi. Anche in Italia è caccia ai «cervelli» stranieri, ma - viste le nuove norme sulla sicurezza - per mandarli via?
«Partiamo da qualche dato numerico sui flussi tra l’interno e l’estero di un Paese per quanto riguarda persone con formazione universitaria. In Italia il 2% dei laureati va all’estero da cui arriva invece lo 0,1%. Vale a dire una quota importante in uscita contro cifre minime in entrata. Negli Usa il parametro è rovesciato: lo 0,3% va via e il 3% arriva».
Le motivazioni di questo trend?
«Ha sicuramente a che fare con le leggi e la burocrazia italiane. Quanto a scarsa attrattività dei talenti abbiamo pochi rivali: in percentuale anche la Turchia fa meglio di noi».
Eppure, le pastoie burocratiche ci sono dappertutto.
«Io ho esperienza di comunità accademiche all’estero. Ricordo dialoghi scoraggianti con docenti di italianistica a Filadelfia: mi dicevano che è più facile ottenere una cattedra in Alabama che a casa loro».
Gli studenti cosa le raccontano? Si lamentano?
«Moltissimo. Il 60% degli studenti extraeuropei denuncia difficoltà a interagire con gli uffici universitari e il 43% trova impossibile avere a che fare con il fisco italiano. Sono numeri impressionanti».
Non esiste una via breve per ottenere l’agognato permesso di soggiorno per meriti di studio?
«Il 69% dei ragazzi incontra difficoltà amministrative incredibili. I documenti arrivano in ritardo, a volte quando non servono più. Io sono arrivato negli Usa nell’85: il visto mi è arrivato a casa con il corriere espresso, una busta con foglio rosa e timbri. Ho preso appuntamento all’ambasciata e sono partito con le carte in regola. Due anni dopo del rinnovo si è occupata l’università, e poi mi hanno dato la cittadinanza americana».
Anche questo è un segno di attenzione.
«Certo, un modo di mostrare interesse. In Italia il 77% degli stranieri che si avvicinano al mondo della ricerca aspetta più di un mese solo per l’appuntamento con la Questura».
Qual è, secondo lei, se c’è, la strategia del governo sugli immigrati talentuosi?
«Le faccio due esempi opposti. Il Giappone tende a far rientrare i suoi “espatriati” fidelizzandoli e creando le condizioni perché arricchiscano il sistema economico e culturale del loro Paese. Gli Usa hanno un approccio diverso: attraggono professionisti già formati a spese di altri Paesi. Ecco: l’Italia non fa né l’una nè l’altra cosa».
Quanti giovani studiosi e professionisti stranieri scelgono l’Italia come patria lavorativa d’elezione?
«Pochissimi. L’88% di chi ha lavorato o studiato qui diche che non intende rimanerci. Se consideriamo che dalle elementari alla laurea uno studente costa allo Stato 500mila euro, è una perdita secca. Nel mio team di trapiantologia guidato da Thomas Starzl, medico celeberrimo, eravamo tutti stranieri: un egiziano, un giapponese, un greco, un canadese. Quando gli chiesi il perchè di una formazione così composita, mi rispose: gente che viene da migliaia di chilomentri è più motivata di chi abita accanto all’istituto».
Un imprenditore ivoriano naturalizzato forlivese ci ha detto: «Mia figlia si sente italiana, studia qui. Se deciderete di non accoglierla sarà peggio pe rvoi: tutto il suo sapere finirà in Costa d’Avorio».
«È proprio così. E ne sono stupito. Negli anni ‘80 Paesi che consideriamo indietro come l’Egitto già offrivano condizioni straordinarie per il ritorno di un loro chirurgo al Cairo. Noi niente. A parte centri di eccellenza come la Bocconi o la Novartis di Siena che sta studiando il vaccino all’influenza suina».
Eppure, nemmeno la Bocconi è riuscita a garantire il posto a un economista indiano con master e Phd...
«Ci hanno provato. Ma il ministero ci ha messo 9 mesi a pubblicare l’albo in cui il ricercatore doveva iscriversi! E ancora adesso non ci sono i moduli. Così alla fine Vikas Kumar è andato a Sydney e noi l’abbiamo perso».
Cosa si può e deve fare per fermare l’emorragia intellettuale?
«Smetterla con gli annunci. Evitare una politica che tenga lontano lo straniero in quanto tale. Creare nelle facoltà uffici di assistenza a studenti extraeuropei che abbiano rapporti stretti con le Questure. Rendere dignitosa e semplice la procedura del visto. A me, in 18 anni d’America, non è mai toccato di prendere sacco a pelo e accamparmi davanti alla Questura alle due di notte».


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