Unità: Se manca la Famiglia
Maurizio Chierici
Cominciano le scuole, genitori che respirano: per dieci mesi ragazzi sistemati. Ma la scuola non è una famiglia. Se famiglia e scuola si rinfacciano la responsabilità del formare la società di domani, povera società. Il familismo protettivo dei genitori e le frustrazioni degli insegnanti possono isolare nella solitudine generazioni aggredite dalla plastica della pubblicità. Vivere e lavorare assieme era l’abitudine degli anni perduti.
Quel rispetto dei genitori per le cattedre alle quali si riconosceva d’aver sempre ragione. Sbagliando; ma era forse meglio sbagliare così. Anni lontani, poche tentazioni. L’Italietta dei cappotti rivoltati è diventata l’Italia dei videotelefonini. L’osservazione è banale, ma riassume la dimensione che separa il passato prossimo dalle abitudini quotidiane dei nostri giorni. Cancella la memoria promettendo un futuro che non va oltre il dopodomani. Il resto non si sa. La voce di chi si proponeva di ascoltare il rumore del mondo smontando la famiglia (ridicola tradizione), adesso che i mondi si moltiplicano confonde le parole. Anche perché «parole come cultura, identità, etnia, razzismo compaiono con sempre maggiore frequenza sui giornali» e nelle tv osserva Marco Aime, antropologo dell’università di Genova, nel saggio Einaudi Eccessi di culture. Migrazioni, tensioni internazionali, flussi di comunicazioni, immagini e idee ogni giorno tracciano scenari che i giovani affrontano con difficoltà. Quasi sempre da soli. Senza capire bene. Padre e madre al lavoro; insegnanti confusi da una scuola che rovescia le regole da un anno all’altro. E l’insicurezza dei ragazzi si rifugia nell’opacità del sopravvivere alla giornata.
Discorsi di ogni inizio anno scolastico; rispuntano con amarezza appena in qualche scuola succede qualcosa. E torna il silenzio. Per capire l’angoscia delle società dalle famiglie disperse basta alzare gli occhi su mondi più o meno lontani ma che per qualcosa ci somigliano: stessa religione, consuetudini e tecnologie standard accompagnano i nostri e i loro adolescenti suscitando le stesse illusioni in realtà rovesciate. Noi ricchi, loro poveri. Noi che brontoliamo per gli emigranti che arrivano, loro che soffrono per padri e madri che partono per sopravvivere. Come gli italiani anni venti, bisnonni degli indecisi di oggi, sono calpestati nelle americhe dove sbarcano. Oppure chiusi nei ghetti della diffidenza anni cinquanta-sessanta: Svizzera, Germania, Belgio, Inghilterra. Sporchi, rumorosi, mafiosi. Anticipavano nelle xenofobie deformanti la deformazione che a poco a poco inquieta la nostra realtà.
Diamo un’occhiata per capire cosa succede in paesi da sembrare prototipi delle sciagure: Salvador, Guatemala, ma anche Argentina e Brasile . Latini come noi, cristiani più di noi. Come si difendono le generazioni adulte dall’impeto dei nuovi? Ecco cosa fanno i ragazzi di là dal mare. Il Salvador ha 5 milioni e 700 mila abitanti, 2 milioni (forse più) lavorano negli Stati Uniti. Paese piccolissimo: 21 400 chilometri quadrati. 240 mila contadini hanno meno di un ettaro da coltivare, mentre le 0,4 per cento dei proprietari possiede estensioni migliaia di volte più grandi. L’utile dei primi cinque imprenditori è superiore al Pil della nazione. E i poveri vanno all’estero in cerca di fortuna. Un terzo dei diseredati lavora negli Stati Uniti e in Europa, vagabondi come gli italiani del novecento. Per vent’anni il Salvador ha sopportato la squadre della morte addestrate da consiglieri Usa con le rughe del Vietnam: erano lì per salvare la civiltà occidentale dal comunismo. 70 mila vittime l’anno, per anni. Anche il vescovo Romero, anche 12 religiosi e 4 gesuiti. Ma comunismo e anticomunismo sono parole ormai sepolte dal liberismo che modernizza la società: le nuove generazioni non ne conoscono il significato. Continua a governare Arena, estrema destra, responsabile di tutti i delitti, espressione delle famiglie proprietarie. Erano 14 prima della guerra civile; sono diventate forse mille: borghesia compradora ingrassata dalla protezione militare.
Non è pensabile cercare nelle tragedie salvadoregne la realtà delle nostre città. Eppure qualcosa pericolosamente ci accomuna: lo sconcerto dei giovani. Là appesi a un filo; qui sazi, ma la solitudine non cambia perché la famiglia è assente.
I soldi che ogni mese padri e madri spediscono alle famiglie sgretolate dall’emigrazione, creano dipendenze devastanti negli adolescenti cresciuti da vecchi parenti. Si abituano al pane sicuro consolando la solitudine con modeste vanità. Spirale di desideri che dalla sicurezza quotidiana guarda ad un benessere da esibire come vanto: vestiti, motociclette, automobili, perfino armi. E quando i soldi non bastano alla dolce vita da parassita, si attrezzano per avere di più. Abbandonano la scuola. E la strada alimenta la cultura della diserzione. E le tentazioni si allargano in un paese dove memoria del passato prossimo è soprattutto la violenza.
Nel vuoto dei senza famiglia la violenza ritorna. Quando giornali e Tv raccontavano il sangue che cominciava a scorrere (inizio repressione anni ottanta) la media era di 17 omicidi ogni centomila abitanti. Senza la contrapposizione di forze armate, nel Salvador pacificato 2006 dove arrivano due miliardi e mezzo di dollari l’anno spediti dai genitori a chi è rimasto a casa, le vittime sono diventate 55 ogni centomila persone. Sempre scontri a fuoco. 3928 delitti negli ultimi dodici mesi: «Percentuale da guerra civile», stabiliscono i parametri delle Nazioni Unite. Il doppio della media latino americana.
Cosa c’entrano i nostri ragazzi con i ragazzi latini tanto lontani? Poco, per il momento. Ma non dimentichiamo che il vento dell’ovest soffia sempre mode, canzoni, culture e stili di vita. Epidemie che nei secoli passati consigliavano di costruire i lazzaretti ad oriente delle città per evitare il diffondersi della peste portata dal vento del tramonto. Adesso sappiamo che non morir di fame e ricevere soldi sicuri non basta.
Ogni ragazzo, vicino e lontano, vuol crescere costruendo la speranza nel dialogo familiare e in una società equilibrata. La vecchia Europa e la patria dei Berlusconi possono vantare una società equilibrata, aperta alle ambizioni dei giovani ? Le distanze col finimondo si accorciano sfogliando il libro inchiesta di Marida Lombardo Pijola, inviata del Messaggero, editore Bompiani: Ho 12 anni, faccio la cubista, mi chiamano principessa. Nell’Italia che legge poco, cinque edizioni in tre mesi. Storie di cinque adolescenti che i genitori non «vedono». Non hanno fatto le valige per fare qualche soldo in posti lontani. Casa e ufficio. Tornano dal lavoro affranti pagando l’assenza con la distruzione di comodità e regali. La scuola fa da baby sitter e le ore vuote diventano blog, discoteche del pomeriggio dove succedono le stesse cose delle discoteche della notte. Rimpicciolisce solo l’età dei protagonisti. Età che non impedisce bande piramidali e strutturate di minorenni: gestiscono la vita delle ragazze con droga e ogni altra cosa.
«Hanno tra i dieci e quattordici anni. Piccole donne e piccoli uomini con pensieri adulti». Padri e madri non sospettano La distrazione continua.. Immaginano timidi turbamenti dell’età che cambia. E da questo limbo inventato dalla disattenzione, i ragazzi guardano i genitori con compassione, a volte disprezzo.
Fenomeno estremo? Forse. Ma fenomeno che si moltiplica in tante città. Il successo del libro lo dimostra. «Si racconta di piccole cubiste che danzano discinte in pose ambigue, inconsapevolmente oscene, simulando richiami erotici con la goffaggine delle bambine. Si racconta di gravidanze precocissime, vissute e interrotte con l’incoscienza che si spende nei giochi pericolosi, all’insaputa dei genitori». Non in Salvador: Roma, Milano, provincia veneta, città del sud. Se i genitori del Salvador trasmettono inconsapevolmente un passato di violenza, i genitori della nostra realtà danno esempi meno cruenti ma ugualmente destabilizzanti nella formazione della personalità dei ragazzi. Consumismo, scarso impegno sociale, entusiasmi per le banalità, tanto sport, tante sciocchezze. Fanno impressione i numeri che arrivano dalla Francia: la stampa rosa, giornali dei pettegolezzi modulati sui protagonisti della televisione banale, volano nelle vendite: 14,5 in più negli ultimi sei mesi. Lettori compresi tra i 22 e i 40 anni, più donne che uomini. Interrogate, rivendicano il piacere di spiare dal buco della serratura personaggi che ritengono famosi. Fotografi e giornalisti guardano e raccontano. E diventano mostri sacri nella stupidità dei grandi fratelli.
Corona docet. Se questa è la maturità di genitori non drammatici, come padri e madri dei posti disperati, ma non attenti come i padri e le madri di una volta, in quali famiglie sta crescendo una parte sempre più larga dei figli che voteranno domani?
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