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Unità: Se il bambino finisce in Pillole

Manca la cultura dell’ascolto... e così il disagio viene affrontato solo col silenzio e i farmaci

28/04/2006
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l'Unità

Luigi Cancrini

Prima lo hanno allontanato perché «iperattivo e aggressivo», perché «i professori non riescono a gestirlo». Poi hanno comunicato ai genitori che lo avrebbero riammesso solo dopo «una terapia a base di psicofarmaci». Niente pillole, niente scuola, insomma. È l’aut-aut che il preside di una scuola media di Milano (col conforto dei medici, pare di capire) ha posto alla famiglia di un ragazzo di 12 anni. Una vicenda inquietante sulla quale è bene, anzi doveroso riflettere. Un grande maestro della terapia familiare, Jay Haley, diceva, parlando dei bambini problematici, che la prima cosa da fare con loro è osservarli nei contesti in cui la loro vita si svolge e la loro difficoltà si manifesta.
A casa e-o a scuola, prima di tutto. Lavorando, successivamente, per capire che cosa si può e si deve modificare, nell’uno e-o nell’altro di questi contesti, perché il bambino ha quasi sempre ragione, secondo Haley, e perché il suo proporre un problema come se fosse il suo è un modo sottile e potenzialmente utile di segnalare che c’è qualcosa che non va, qualcosa da cambiare in meglio a livello degli adulti che di lui si occupano. Evidenziando una difficoltà della coppia o della famiglia allargata in casa, una difficoltà organizzativa o umana a livello della classe.
Confermato per me da tanti anni di lavoro con i bambini, con le loro famiglie e con i loro insegnanti, questo modo di pensare ai bambini che manifestano forme diverse di disagio è ancora, purtroppo, un modo di pensare poco diffuso e, spesso, frainteso da chi pretende di sapere come funziona il cervello dei bambini. Molti la pensano in modo diverso, infatti, parlando di fronte alle manifestazioni del loro disagio di bambini da affidare direttamente allo psichiatra o al neuropsichiatra infantile.
L’idea alla base di questo secondo modo di pensare al bambino-problema è, come tutte le idee sbagliate, un’idea mostruosamente semplice. Per essa, il disagio e le sue manifestazioni vanno considerate come un analogo di quelli che sono gli esiti delle cerebropatie e delle psicosi; come il segno, cioè, di un cattivo funzionamento del cervello e solo secondariamente della mente del bambino. Chiede un intervento, possibilmente farmacologico, su di lui. Streghe dei tempi moderni, gli psichiatri e i neuropsichiatri infantili, quelli che dovrebbero occuparsi soprattutto dei casi in cui il cervello è davvero danneggiato, sono chiamati a indicare il farmaco giusto e la dose giusta perché il bambino si comporti nel modo che più fa comodo agli adulti. Preoccupati per un figlio o un alunno di cui non si sanno occupare, gli adulti che hanno a che fare con lui possono risparmiarsi così ogni tipo di riflessione e di autocritica. Nulla mai c’è, per loro, che non funziona nella casa e-o nella scuola del bambino che soffre. La sua sofferenza viene solo da lui, dal cattivo funzionamento dei suoi neuroni e-o dei suoi neurotrasmettitori. Come ben provato, dicono, dalla risonanza magnetica e dalla PET che dimostrerebbe come, in corso di disagio, alcune zone del suo cervello lavorano di più o di meno. Dimenticando, i falsi scienziati dei neurotrasmettitori, che anche il lutto, per esempio, provoca quadri tipici di zone iper o ipofunzionanti alla PET ma che a nessuno verrebbe in mente di pensare o di dire a chi l’ha vissuto che il lutto non c’è stato e che il suo star male dopo il lutto non dipende da quello che ha perso ma da un cattivo funzionamento dei suoi recettori.
Perché l’essere umano e molti animali evoluti vivono gran parte delle loro emozioni in rapporto alle esperienze che fanno incontrandosi con il mondo, non in rapporto a misteriose modificazioni che avvengono dentro di loro. La vita mentale si regge sul cervello, è vero, ma non ne viene, se non eccezionalmente, determinata. Questo, almeno, dice il buonsenso, quello che manca a troppi che parlano oggi come se lo conoscessero, del cervello di un bambino che manifesta disagio.
Il caso a Milano del ragazzo espulso dalla scuola «perché la famiglia non vuole curarlo con degli psicofarmaci» (come abbiamo letto ieri sui giornali) propone con immediata, drammatica evidenza il punto di follia dove si arriva quando, trascinati dalla paura di mettere in discussione se stessi, gli adulti pretendono di aggiustare il comportamento di un bambino con l’aiuto di un mago. Quello che l’esperienza insegna, infatti, è che il farmaco, come i maghi e le streghe, assai poco aiutano se i contesti non mutano e che la gran parte dei bambini-problema spacciati per bambini «psichiatrici» diventano davvero dei pazienti assai difficili da curare semplicemente perché la loro richiesta di aiuto, quella veicolata dalle manifestazioni del loro disagio non sono state ascoltate.
L’ascolto. Quello di cui parlava Freud all’inizio del secolo scorso. Quello per cui non c’è più tempo oggi, in una stagione in cui tutti vanno terribilmente di fretta. Quello che non fu dato a Dora, uno dei più celebri casi di Freud che aveva raccontato in analisi le ragioni, sconvenienti per la sua famiglia del suo star male. Che finì, per questo, in una casa di cura dove, invece dei farmaci, c’erano allora le terapie fisiche, i bagni caldi e freddi, in anni che erano ancora precedenti a quelli in cui furono inventati lo shock elettrico e quello insulinico. Perché la storia della psichiatria, una storia che pochi sembrano in grado di imparare, è terribilmente ripetitiva proprio su questo punto: quello legato alla difficoltà di ascoltare e di dare voce a chi, nel conflitto fra persone, è il più debole. Come facilmente si capirebbe, anche in questo caso, se un terapeuta esperto potesse lavorare insieme con tutti gli adulti che si occupano di un bambino che è messo in difficoltà, probabilmente, proprio dal conflitto che fra gli adulti, fra famiglia e scuola, si è istituito. Un conflitto in cui nessuno ha ragione e tutti hanno torto perché non fanno quello che il buonsenso chiederebbe di fare: uno scambio di idee rispettoso e paziente sulle difficoltà evidenziate e segnalate dal bambino. Con l’aiuto, magari, di un professionista vero della salute mentale.


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