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Unità: Scuola o lavoro? Il dilemma inglese

una serie di implicazioni che dovrebbero costituire un monito - qualora non sia troppo tardi - per i nostri governanti

06/06/2007
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l'Unità

Marina Boscaino

Leggo sull’Economist di qualche tempo fa un’utile riflessione sul sistema dell’istruzione inglese. In un numero dedicato a celebrare i numerosi cambiamenti positivi registrati negli ultimi anni nel Regno Unito, l’unico settore critico rimane quello delle politiche scolastiche. Con una serie di implicazioni che dovrebbero costituire un monito - qualora non sia troppo tardi - per i nostri governanti. Anche l’Inghilterra sta vivendo infatti il proprio dilemma tra scuola tradizionale e formazione professionale. Solo che, rispetto a noi, lo vive alla luce del sole e con meno ambiguità. Il che non si sa se sia meglio o peggio. Per ciò che concerne il confronto con i paesi Ocse, il Regno Unito si trova al ventitreesimo posto per la quota dei cittadini dai 25 ai 34 anni che hanno completato la scuola secondaria. Una posizione particolarmente penalizzante.
Il sistema scolastico inglese è superbo nelle scuole di élite, in un Paese dove rimane un’enorme e importante divisione tra educazione pubblica e privata. La frequenza delle buone scuole - si sa - è destino di pochi. Altrove - nella maggior parte degli istituti - si registrano abilità di base molto povere e una tendenza degli studenti a lasciare la scuola immediatamente dopo l’assolvimento dell’obbligo a 16 anni. Il risultato più evidente di questa situazione è che l’Inghilterra sforna laureati ad alto livello, ma è totalmente sottofornita di abilità a livello medio. Il governo laburista ha tentato di dare risposte a questa situazione critica durante i 10 anni passati: è stato assunto un notevole numero di insegnanti forniti di un’adeguata formazione; la spesa per alunno è passata dalle 2000 sterline del ‘97 alle 4000 del 2005. Gli studenti indigenti tra i 16 e i 19 anni hanno ricevuto un assegno settimanale finalizzato a persuaderli a rimanere a scuola e sono stati stanziati 40 miliardi di sterline, avviando il programma nel 2006, per ricostruire e migliorare le scuole secondarie.
Quello che ci interessa più da vicino - considerata l’entità delle somme investite, irraggiungibile da noi sia dal punto di vista materiale che della reale volontà - è il dibattito ideologico che si è sviluppato tra academic studies (il sistema scolastico vero e proprio) e vocational studies (il sistema di avviamento professionale). Nelle differenti posizioni si è comunque fallito l’obiettivo di mettere in piedi un sistema di rigorosa qualificazione di coloro i cui interessi non sono finalizzati alla continuazione degli studi. Anche perché l’erogazione di fondi ha dato vita ad un’apertura ad un’ottica mercantile e liberista - con maggiore autonomia, identità e sponsor esterni - in cui costumer is king (il consumatore è re). Le scuole che hanno fallito in aree disagiate sono state rimpiazzate da “accademie” sponsorizzate e in parte finanziate da imprese. Tutte le scuole sono state incoraggiate ad assumere lo status di trust (consorzio), collegate con altre scuole o imprese per creare sistemi con una considerevole autonomia delle autorità educative locali.
Un rilievo superficiale dei risultati è sembrato in un primo momento dare ragione all’operazione: i più giovani hanno proseguito il percorso scolastico. Ma i veri problemi hanno continuato a localizzarsi nella scuola superiore: gli studenti che hanno ottenuto 5 voti positivi all’esame dei 16 anni dal 45% del ‘97 è salito al 57% del 2006. Ma la percentuale di coloro che inserivano nell’esame inglese, matematica, una lingua straniera e scienze (precedentemente materie centrali nei curricola) è scesa dal 30 al 20%: gli studenti hanno fatto meglio perché hanno potuto scegliere materie più facili. Nell’esame dei 16 anni le lingue straniere sono cadute del 37% in 5 anni. Dimezzato l’interesse per la chimica, biologia e fisica (in questa disciplina il numero degli studenti che hanno preso il massimo del punteggio si è dimezzato dall’88 ad oggi). Gli standard hanno sofferto in nome dell’inclusione, dunque, né si è stati capaci di dar vita ad un sistema vocazionale coerente. A fronte di questi risultati il governo propone oggi riforme in due aree, volte alla 1) individuazione di un livello più difficile di scuola tradizionale 2) introduzione di un nuovo modello di diploma, dando la possibilità ai ragazzi tra i 14 e i 19 anni di iscriversi a corsi professionalizzanti, in cui inserire un nocciolo di abilità di base (al momento non identificato, né qualitativamente, né quantitativamente). Per il momento nessuno ha chiaro in cosa consisteranno realmente questi corsi, ma il governo stima che in questo modo il 40% degli studenti abbandonerà l’esame dei 16 anni, per inserirsi nei corsi di diploma “work related”. Il risultato molto probabilmente sarà la creazione di una divaricazione dei sistemi ancor più definitiva dell’attuale. Dove i “nati bene” continueranno a studiare (sempre meglio). Gli altri, gli sfigati - come si dice alle nostre latitudini - saranno avviati a percorsi alternativi alla scuola obbligatoria: l’Economist conclude che la speranza concreta è che l’istituzione di questo tipo di percorsi induca il maggior numero di questi studenti a non scegliere una formazione accademica, che alimenta speranze inutili; e faccia aumentare la possibilità di lavoro specializzato. Significativa e particolarmente sincera la chiusa dell’articolo, che sottolinea che questo sarebbe estremamente opportuno per le minoranze etniche del Regno Unito: corsi da idraulico per neri? L’idea è drammaticamente repellente, ma non troppo lontana dalla realtà.


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