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Unità: Sbatti la scuola in prima pagina

Marina Boscaino

24/04/2007
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l'Unità

Siamo davvero convinti che questo sia «l’anno zero» del bullismo nella scuola italiana? Crediamo davvero che i bulli si siano organizzati per uscire tutti insieme allo scoperto con nefandezze di vario tipo? Riteniamo possibile che - contemporaneamente - il peggio della classe docente italiana abbia deciso di dare libero sfogo alla sua inettitudine e volgarità? E, infine, ci sembra davvero casuale l’attacco di tanti editorialisti contro gli insegnanti italiani?
Se proviamo a ragionare su queste apparenti casualità, ci rendiamo conto che, da qualche mese, l’unica possibilità per la scuola italiana di finire in prima pagina è legata a fatti negativi. Qualche tempo fa Giuliano Ferrara ha affermato che nel nostro Paese quando si parla di scuola crollano gli ascolti. Quasi contemporaneamente - durante una puntata dell’Infedele legata ai problemi dell’integrazione degli alunni stranieri - Gad Lerner ha letteralmente strappato il microfono dalle mani di alcuni insegnanti che stavano spiegando che nelle loro scuole gli alunni stranieri sono integrati. L’impressione è che si voglia offrire ai lettori, al pubblico televisivo, questa immagine della scuola. E non solo perché dopo ogni editoriale dei soliti Ichino, Panebianco, Giavazzi, Galli della Loggia c’è sempre qualcuno che invoca la chiamata diretta degli insegnanti.
Sia ben chiaro: non intendo dire che il disagio di molti alunni non esista; e che quello che - con termine discutibile - si chiama bullismo, non rappresenti un problema importante. Né che gli insegnanti sono tutti bravi e motivati allo stesso modo. Ma la strategia con cui si amplificano fenomeni che sono sempre esistiti (e che sono aumentati per motivi spesso indipendenti dalla scuola), sortisce come effetto quello di cancellare dalla coscienza collettiva la scuola che macina lavoro; la scuola che interviene; che produce cultura e cittadinanza. E che in tempi come i nostri costituisce l’unico baluardo di democrazia e di pari opportunità per tutti, anche per i “figli di un dio minore”. Il rischio che in molti, in troppi stanno sottovalutando è l’effetto emulativo che l’aggressione mediatica può produrre (e sta producendo) negli adolescenti allevati alla cultura del Grande Fratello, all’equivoco di un margine confuso tra vero e non vero. E dove l’unica prova di realtà è la ripresa della telecamera o il titolo in prima pagina. I bulli - grazie anche all’insistita informazione sulle loro prodezze - hanno trovato un modo per conquistarsi diritto di esistenza, il loro piccolo pezzo di paradiso. Esistono ed esistono da protagonisti, riprodotti come i famosi dell’isola.
Il rischio è enorme, per una generazione priva di punti di riferimento. Ed inoltre, si ha sempre più l’impressione che il bullismo rappresenti una notte in cui tutte le vacche sono bigie. La tragica dimostrazione è il caso di Matteo, a Torino, suicida probabilmente perché incapace di sopportare i compagni che gli davano del “frocio”, lo chiamavano Jonathan (guarda caso come uno dei protagonisti del Grande Fratello di qualche anno fa): il marchio di una violenza verbale che fa parte della comunicazione quotidiana di adulti e adolescenti. Il senso, registrato anche dal linguaggio, di un mondo omofobico, razzista, che imprime lettere scarlatte in nome di una presunta normalità, spesso con il beneplacito di una parte della chiesa; che organizza il Family Day in una sorta di ambigua e ipocrita rappresentazione di ciò che è normale solo nella falsa buona coscienza. L’intera società allora è bullismo, l’indifferenza che ciascuno di noi - genitori, insegnanti, cittadini - coltiva nei confronti di violenze più o meno esplicite è bullismo; l’incapacità di indignazione è bullismo; l’autoreferenzialità è bullismo. L’ipocrisia di una parte dei media, che prima induce il mito del voyeurismo e poi ne stigmatizza ipocritamente le conseguenze è bullismo. La mancanza di volontà di alcuni insegnanti di impegnarsi profondamente in un’attività di scardinamento di luoghi comuni, dei misfatti del perbenismo borghese, del sonno della ragione dell’epica della normalità (razziale, sessuale, politica o religiosa) è bullismo. La colpevolissima latitanza del mondo della politica sul sostegno ai giovani e alla scuola è bullismo. Tutti questi fenomeni sono infatti il frutto di un senso di sopraffazione del più forte sul più debole, della logica del branco, del così fan tutti, dell’io non vedo, non sento, non parlo.
Ci crediamo o no che la scuola possa essere in grado, se avesse a disposizione fondi e professionalità adeguate, di far fronte ai moltissimi, eterogenei fenomeni che chiamiamo superficialmente bullismo? O ci siamo arresi, come ci siamo arresi davanti alla piaga della dispersione, delegando ad altri compiti e funzioni e l’occupazione di spazi (e di interessi economici) lasciati liberi da questa scuola sfiduciata dalla politica, dai media, dalla società civile? La convinzione assoluta è che il disagio giovanile non potrà trovare la propria soluzione attraverso operazioni più o meno appariscenti, dispendiose e di dubbia efficacia. Omologare comportamenti e ricette sotto l’etichetta di bullismo non servirà se non a distogliere l’attenzione da ciò di cui la scuola ha urgentemente bisogno per contrastare i disagi: una revisione del sistema di reclutamento a fronte di un salario che si liberi dalle vergognose ristrettezze attuali e che faccia di quello dell’insegnante un lavoro ambito e non l’extrema ratio di molti; una riscrittura del percorso curriculare dai 3 ai 19 anni che - nel potenziamento del rapporto tra le discipline e nell’individuazione di strategie didattiche condivise e gestite collegialmente - concretizzi la centralità delle culture e delle competenze di cittadinanza che la scuola deve trasmettere; la centralità della relazione educativa nel percorso scolastico che - spostando l’attenzione dall’oggetto al soggetto - ribadisca l’autorevolezza e la cura che devono caratterizzare il rapporto tra maestro e allievo.


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