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Unità-Riformismo senza riforme-di Bruno Trentin

Riformismo senza riforme di Bruno Trentin L'orientamento assunto dalla maggioranza dei Ds d'indire una vasta consultazione fra i militanti del partito, sulla scelta di promuovere una lista unita...

03/11/2003
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l'Unità

Riformismo senza riforme
di Bruno Trentin

L'orientamento assunto dalla maggioranza dei Ds d'indire una vasta consultazione fra i militanti del partito, sulla scelta di promuovere una lista unitaria per le elezioni europee fra le forze dell'Ulivo che si dichiarassero disponibili e l'affacciarsi della prospettiva di un nuovo soggetto politico di tipo federativo, coglie a mio parere una forte domanda di unità che proviene dalle più diverse espressioni di un centro-sinistra in formazione, nei partiti e nei movimenti. Proprio la scelta della lista unitaria chiama in campo il ruolo di un progetto di società, prima ancora di un programma di governo come ragione d'essere, etica e politica di un nuovo soggetto riformatore e come ragione "dello stare insieme".

Ma qui si apre il vaso di Pandora: fioriscono le proposte o le "aperture" le più diverse e le più contraddittorie. E questo perché vivono ogni progetto, e la necessità di scegliere fra opzioni ineluttabilmente alternative, come una prigione che potrebbe imbrigliare, quando si tratta di assumere delle decisioni impegnative, la possibilità di muoversi in sintonia con le opportunità più contingenti, o con le mode più recenti.

È stata questa, fino ad ora, la storia del "Manifesto per l'Italia", assunto come base di discussione alla Convenzione Programmatica di Milano e rimasto, malgrado gli sforzi di Piero Fassino, come un patrimonio per pochi iniziati.

Tant'è che, poche settimane dopo Milano, sono riapparse cocciutamente, nell'ambito della sinistra, le stesse opzioni che erano state contestate dal "Manifesto per l'Italia": come la riduzione indiscriminata della pressione fiscale per permettere, in stile reaganiano, ai cittadini meno poveri di accedere ai servizi privatizzati della sicurezza sociale; l'accelerazione della scomparsa delle pensioni di anzianità, senza sostituirle con un regime più equo, che prenda in conto i periodi di disoccupazione e garantisca delle pensioni pubbliche superiori al 48% dell'ultimo salario, oggi previsto dalla legge Dini (e solo per chi avrà lavorato senza discontinuità e pagando sempre i contributi per tutta la sua vita); o l'ulteriore rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio nei confronti del Parlamento&

A pochi mesi dalla Convenzione programmatica di Milano, promossa dal Segretario dei Ds, molti esponenti politici reagiscono, non all'idea di un nuovo progetto da formulare (questa viene, invece, sempre invocata). Ma, nel momento in cui qualsiasi progetto, prende forma (sono ormai quattro, fino ad ora, se non sbaglio, i tentativi di formulare dei documenti progettuali da parte del Pds e dei Ds) nei confronti dei possibili obiettivi vincolanti enunciati nel progetto. Con il fastidio di chi non vuole farsi imprigionare preventivamente in un patto trasparente con gli elettori&. Non so come definire questo continuo impaccio alla possibilità di "volare alto" che pesa sulla strategia della sinistra riformatrice in Italia e nelle sue più diverse articolazioni, se non con le catene che derivano dalle sue eredità trasformistiche. E, per gli ex comunisti, da un passato che non andava certo cancellato o rimosso, con la caduta del muro di Berlino, ma che andava rivisitato criticamente e laicamente superato, senza residui, nelle sue parti sempre più intrise di autoritarismo e di vocazione all'egemonia, almeno prima di dedicarsi subito e ripetutamente al solo cambio di nome&.

Si è venuta formando, in quel contesto, una cultura del trasformismo. Dobbiamo però interrogarci sulle matrici di una simile cultura nella storia più recente della sinistra italiana. Forse una pista può essere fornita dalle ricadute della crisi del leninismo sul tessuto culturale delle varie articolazioni della sinistra. Il leninismo è stata la capacità di esprimere una forte autonomia della "tattica", nei confronti di una grande strategia della trasformazione rivoluzionaria& Ogni momento della tattica trovava la sua ragion d'essere nell'essere una tappa di avvicinamento al momento della grande trasformazione, dell'irreversibile trasformazione della società. Ma cosa succede quando lo sbocco rivoluzionario e l'irreversibile trasformazione della società non sono più degli obbiettivi strategici?

Con la scomparsa della prospettiva più o meno lontana della "grande trasformazione irreversibile", non ci sono più riforme funzionali a quel cambiamento, attraverso l'avvicinamento al potere, ma riforme che la crisi e le trasformazioni di una fase di transizione delle società contemporanee impongono di realizzare, non come tappe intermedie, ma "qui e ora"; e che debbono essere percepite nella loro radicalità, proprio in ragione della possibilità di intravedere, da subito, tutte le loro implicazioni, anche lontane, sulla vita quotidiana dei cittadini.

Una valutazione questa che si è compiuta molto raramente, per esempio, a proposito delle politiche di formazione che erano al primo posto nel programma di Prodi e delle varie versioni di una riforma pensionistica. Una valutazione la cui assenza, in termini di mobilitazione di massa, di lotta contro le resistenze corporative, si è fatta sentire quando sono state tentate importanti e condivisibili riforme dall'alto, durante i primi governi di centro sinistra: come la riforma dell'ordinamento scolastico e della formazione permanente o come riforma della sanità e la riforma dell'assistenza. E vi è poco da sorprendersi del fatto che queste riforme non siano state vissute come cosa loro da milioni di cittadini.

Questi sono, quindi, i guasti provocati dalla sopravvivenza di un leninismo senza la rivoluzione, da una tattica orfana della rivoluzione e perciò separata da una strategia della trasformazione possibile che si concili con l'interesse generale e con l'evoluzione di questo interesse generale.

La cultura trasformistica che circola anche tra le varie componenti della sinistra e che si arrovella sulle formule, alla ricerca di un "apriti Sesamo" che schiuda loro la strada dell'accesso nel club delle classi dirigenti, viene così distratta da una riflessione laica sulle autentiche trasformazioni della società&. Così sono entrate a far parte delle innovazioni "riformiste" della sinistra, di volta in volta, la riduzione dei salari per i nuovi assunti, la flessibilità del lavoro senza la sicurezza di una impiegabilità attraverso la formazione, la monetizzazione dell'articolo 18, il taglio delle pensioni di anzianità, senza riflettere sulle cause, tutte italiane, dell'esplulsione dal mercato del lavoro di centinaia di migliaia di lavoratori anziani, condannandoli alla disoccupazione in attesa delle pensioni. Sono stati questi, per esempio, i cavalli di battaglia del mio amico e neo-politologo Michele Salvati; il quale, dopo avere espresso tutto il suo disprezzo per le singole proposte concrete avanzate nel "Manifesto per l'Italia" (&"Non ci ho trovato nulla"), si è dedicato all'obiettivo, secondo lui prioritario, di promuovere una scissione "consensuale" nei Ds, che liberasse la strada per un Partito Democratico, se possibile, con pochi dirigenti ex comunisti (i gregari possono andare bene). Un esempio da laboratorio delle trasformazioni genetiche di tipo "zelighiano" che può determinare, nelle persone migliori, una cultura trasformista presa a troppo forti dose.

Si tratta, infatti, in tutti questi casi, dei frutti di una lettura datata e superficiale delle grandi trasformazioni che attraversano il mondo, l'Europa e la stessa società italiana. Una lettura che diventa così necessariamente subalterna agli stereotipi, alle rappresentazioni ideologiche che di queste trasformazioni cercano di dare i gruppi più conservatori delle classi dominanti, ormai in perdita di egemonia. A ben vedere, la stessa lettura - sia pure in termini simmetricamente rovesciati - e la stessa caduta di autonomia culturale, si ritrovano nelle raffigurazioni ideologiche che hanno scandito in questi ultimi anni, in Italia, l'iniziativa dell'estrema sinistra. Per esempio la rivendicazione "fordista" e egualitaria delle 35 ore settimanali per tutti, sulla scia del dirigismo socialista francese, che ha dato il primo scossone al governo Prodi&

Ma come uscire dall'egemonia trasformista e da quello che rischia di diventare un riformismo senza riforme? Certo lavorando a costruire e a rileggittimare un nuovo soggetto unitario della sinistra che possa concorrere a ridefinire uno schieramento federato, in Italia e in Europa delle forze del centro sinistra. Ma riuscendo, nello stesso tempo, a dare a questo soggetto politico la forza di un progetto, e di grandi proposte riformatrici, intorno alle quali ricercare un consenso e un contributo critico non solo nella cerchia dei partiti ma fra tutte le espressioni motivate della società civile. Avvicinandoci non solo ai loro problemi ma anche al loro modo di intenderli e di viverli, senza la boria di chi si sente, in ogni caso, predestinato al governo del Paese.

Costruendo dall'alto e dal basso il progetto riformatore, riconquistando un'autonomia culturale nella lettura dei processi di trasformazione, anche attraverso un confronto aperto con i nuovi protagonisti di una battaglia riformatrice che si sono spesso allontanati da una politica che non li riconosceva come attori del cambiamento.

Con i movimenti che negli ultimi due anni si sono fatti strada fra i meandri della politica. Ma anche con le centinaia di movimenti "per un obbiettivo" (one issue movements) che sono emersi nella società civile. Con i sindacati. Con le migliaia e migliaia di associazioni volontarie.

Non si tratta di cercare benevolenze o di costruire alleanze che non siano fondate su obbiettivi condivisi; e quindi, prima di tutto, confrontati criticamente. Nè si tratta di andare a questo confronto senza proposte; ma con proposte effettivamente aperte ad un loro cambiamento e un loro arricchimento. Non si tratta di abdicare alle responsabilità di un soggetto politico che aspira a guidare il Paese, ma di costruire e di verificare le ragioni che possono legittimare questa guida, in nome di un grande disegno riformatore che parli al Paese e non a pochi professionisti disincantati della politica.

Il testo integrale di questo articolo uscirà nella rivista di Andrea Margheri "Gli argomenti umani"

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